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mercoledì 29 febbraio 2012

Violenze senza fine in Siria

Dall'Osservatore Romano del 1 marzo 2012


Secondo l’Onu sono oltre 7.500 le vittime

Damasco, 29. Mentre dalla Siria giungono drammatiche denunce di persistenti e quotidiane stragi di civili, non danno ancora risultati gli sforzi della diplomazia internazionale, che si conferma divisa, di dare soluzione alla crisi. Di almeno 7.500 morti dall’inizio delle proteste, nel marzo scorso, ha parlato il vice segretario generale dell’Onu per gli affari politici, Lynn Pascoe, in un’audizione ieri al Consiglio di sicurezza. Pascoe ha spiegato di non poter fornire il numero esatto delle vittime delle proteste, ma ha sostenuto che secondo rapporti credibili, in Siria muoiono oltre cento persone al giorno. Pascoe ha sostenuto che le mancate decisioni del Consiglio di sicurezza per «fermare la carneficina» hanno incoraggiato il Governo siriano a ritenere di poter agire «impunemente». Secondo Pascoe, circa 25.000 siriani sono scappati nei Paesi limitrofi mentre gli sfollati interni sono tra i cento e i duecentomila.

Il nunzio apostolico in Siria, l’arcivescovo Mario Zenari, in un’intervista ieri a Radio Vaticana, ha detto che molte delle vittime della repressione sono bambini, almeno cinquecento secondo l’Unicef. Il nunzio ha citato l’uccisione anche di un bimbo di dieci mesi, preso dai militari e fucilato con tutta la sua famiglia in una località vicina a Homs, e quella una bambina falciata da colpi di arma da fuoco mentre partecipava al funerale di un’altra bambina.

Oggi il Segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, riceverà a New York il suo predecessore, Kofi Annan, che ha nominato inviato speciale per la Siria, per definire le prossime mosse da intraprendere per fermare il massacro. Anche la responsabile dell’ufficio dell’Onu per gli affari umanitari, Valerie Amos, è pronta ad andare a Damasco per negoziare l’accesso degli aiuti umanitari alla popolazione non appena le verrà permesso dalle autorità siriane di entrare nel Paese.

Diplomazie divise sul referendum in Siria

Dall'Osservatore Romano del 29 febbraio 2012

DAMASCO, 28. La comunità internazionale si divide sul referendum tenuto domenica in Siria sulla nuova Costituzione che introduce il multipartitismo, approvata con l’89,4 per cento di sì e con un’affluenza alle urne del 56,4 per cento.
Secondo un portavoce del segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, «è poco probabile che il referendum sia credibile, visto il contesto generalizzato di violenza e di violazione dei diritti». Secondo  diversi Governi occidentali si è trattato di una farsa, mentre diametralmente opposto è il giudizio del ministero degli Esteri di Mosca, che parla di un passo verso la democrazia.
Secondo Mosca, proprio l’affluenza alle urne dimostra il seguito limitato delle opposizioni che avevano invitato al boicottaggio, che dunque «non possono parlare a nome del popolo siriano. Un riconoscimento dell’opposizione è venuto invece dai ministri degli Esteri dell’Unione europea, che ieri hanno varato nuove sanzioni contro Damasco.
Sempre ieri, il ministro degli Esteri cinese, Yang Jiechi, in una telefonata con l’ex segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, ora inviato in Siria, gli ha augurato risultati positivi nel promuovere una soluzione politica della crisi.
Nel frattempo, la Croce rossa e la Mezzaluna rossa sono riuscite a entrare ad Hama, facendo arrivare, dopo mesi, aiuti a 12.000 persone. Anche a Homs la Mezzaluna rossa ha potuto portare forniture mediche nel quartiere di Bab Amro, dove ha evacuato feriti, ma non è riuscita a ottenere il permesso di portare in salvo i giornalisti stranieri bloccati. Fonti locali hanno riferito che sono stati trovati i corpi di 64 persone uccise, molte delle quali donne.

ascolta l'intervista sui massacri anche di bambini in Siria

intervista su Radio Vaticana a Monsignor Zenari
 http://212.77.9.15/audiomp3/00304015.MP3

Da "La Bussola Quotidiana" Siria, il grande gioco

Siria, il "grande gioco"

di Gianandrea Gaiani
08-02-2012


La crisi siriana somiglia sempre di più a quella libica dello scorso anno, con la differenza che il caos che da mesi domina l’ex regno di Muammar Gheddafi non sembra avere insegnato nulla all’Europa, che affronta le crisi del mondo arabo semplicemente sostenendo la strategia di Washington che però ha interessi ben diversi dai nostri, anzi, ora più che mai divergenti.

Il “copione libico” è evidente soprattutto dalle caratteristiche della campagna mediatica che da mesi mira a ingigantire stragi e repressioni attuate dal regime di Bashar Assad, che certo esistono ma non bisogna dimenticare che tra i quasi 6 mila morti registratisi secondo l’Onu dall’inizio della rivolta, circa un terzo sono militari e poliziotti. Questo significa che in Siria si combatte una guerra civile con un esercito degli insorti armato da turchi, sunniti-libanesi e qatarini, in parte gli stessi che appoggiarono la rivolta contro Gheddafi.
Come in occasione della guerra libica riempiamo i giornali occidentali di notizie non verificate rilanciate da social network, sedicenti associazioni per i diritti umani e l’immancabile al-Jazira che fa capo a quell’emirato del Qatar che gioca alla grande potenza in tutti gli scenari medio orientali. Ci abbeveriamo della propaganda degli insorti ripetendo l’errore compiuto in Libia dove enfatizzammo notizie di stupri di massa (con viagra!) compiuti dai mercenari di Gheddafi o di numeri spropositati di vittime che vennero poi smentiti da Human Rights Watch ed altre organizzazioni.

Intendiamoci, il regime di Bashar Assad è tra i più violenti e autoritari del Medio Oriente, ma lo era anche quando, nel febbraio 1982, l’insurrezione dei “Fratelli Musulmani” venne stroncata nel sangue dal padre di Bashar, Hafez Assad, che ad Hama uccise tra i 25 mila e i 50 mila ribelli nella totale indifferenza de mondo. Lo era anche quando, fino al 2010, francesi e italiani gli vendevano elicotteri da combattimento Gazelle e sistemi di puntamento per i carri armati. Lo era anche quando, sempre nel 2010, la Turchia di Receyp Erdogan, che oggi ospita e addestra l’esercito ribelle, aveva firmato un patto di cooperazione militare con Bashar Assad, oggi stracciato con la stessa disinvoltura con la quale l’Italia “congelò” il trattato di amicizia con la Libia di Gheddafi.

Nella gestione delle crisi determinate dalla cosiddetta “primavera araba” gli interessi e l’influenza delle potenze, grandi o regionali, sono ormai ben delineati, fatta esclusione per l’Europa. Russi e cinesi, dopo aver abbandonato la Libia astenendosi sulla Risoluzione 1973 che autorizzò la campagna militare contro Gheddafi, sono decisi a difendere la Siria, come hanno dimostrato alle Nazioni Unite; non tanto per proteggere un Assad ormai senza futuro (anche se è un ottimo cliente militare e tecnologico per Mosca) quanto per gestire una transizione che lasci spazio anche a forze laiche e non solo ai Fratelli Musulmani. Non è un caso che tutte le minoranze siriane inclusi i cristiani sostengono il regime, la cui laicità ha sempre rispettato i culti più diversi.

Mosca, con il supporto discreto ma importante di Israele, vuole evitare che la Siria diventi un “protettorato” turco e intende fermare la deriva islamista che sta emergendo dalla “primavera araba” prima che determini insurrezioni simili nel Caucaso e in altre regioni asiatiche russe ed ex sovietiche, non a caso un tempo sotto il controllo dell’Impero Ottomano. Mosca e Pechino hanno poi tutto l’interesse a ostacolare la politica di Washington, ormai palesemente allineata con le forze del cosiddetto “islam moderato”.

Washington, abbandonata la strategia improntata alla stabilizzazione dell’era Bush, punta decisamente a destabilizzare l’intero mondo arabo cavalcando il crollo di regimi peraltro filo-americani come quello di Ben Alì in Tunisia, di Mubaraq in Egitto e persino di Gheddafi, che negli ultimi anni aveva portato decisamente la Libia nell’orbita occidentale. Il repentino mutamento della politica statunitense ha spaventato soprattutto l’Arabia Saudita, monarchia medioevale che per non rischiare di fare la stessa fine ha puntellato con le sue truppe il regno del Bahrein minacciato da una rivolta sciita e ha contribuito a influenzare l’esito delle elezioni egiziane comprando con una marea di banconote da dieci dollari (una per ogni voto) i vasti consensi riscossi dal partito salafita.

Obama, con i turchi come alleati regionali che rappresentano oggi anche un punto di riferimento ideologico per il Medio Oriente, puntano a creare un blocco sunnita omogeneo guidato dai Fratelli Musulmani e da partiti affini. Un blocco in grado di combattere o isolare l’Iran sciita e i suoi alleati, il regime alauita siriano e gli hezbollah libanesi. Gli statunitensi vogliono restare dietro le quinte, fornendo supporto strategico e logistico ma lasciando agli alleati regionali i compiti di prima linea come è accaduto in Libia e come potrebbe accadere presto in Siria, campo di battaglia sul quale Qatar e Turchia premono per mettere alla prova le loro capacità di leadership militare regionale.
Dopo dieci anni di guerre e con l’attuale crisi finanziaria, gli Stati Uniti possono sperare di mantenere la loro leadership globale nei prossimi decenni solo fomentando instabilità e disordine nel “cortile di casa” dei loro diretti rivali militari, finanziari ed economici: Russia, Europa, Cina, India, Giappone…..

Se guardiamo attraverso questa ottica le recenti iniziative statunitensi si intravvede il disegno globale. Nel Pacifico Washington mobilita gli alleati (e gli ex nemici come il Vietnam) per far fronte all’espansionismo cinese. Vende armi a tutti perché a differenza che in passato non garantisce un ombrello di sicurezza ma esorta a spendere di più per la difesa, meglio se acquistando armi americane. Se Cina, Taiwan, Corea del Sud e Giappone saranno impegnati in una massiccia corsa al riarmo avranno meno risorse da destinare allo sviluppo.

Anche le trattative in atto con i talebani in Qatar (guarda caso, ancora il Qatar) potrebbero indicare il tentativo di mediare un rapido disimpegno dall’Afghanistan magari in cambio della rinuncia al jihadismo contro gli Stati Uniti. Un recente rapporto della Nato ha rivelato che i pakistani tengono sotto stretto controllo i talebani e si apprestano a riprendere Kabul una volta partiti gli occidentali. Il presidente afghano Hamid Karzai ne è consapevole e infatti nell’ottobre scorso ha stretto un accordo strategico con l’India che impegna Nuova Delhi a rimpiazzare se necessario con propri soldati le forze della Nato. Ci sono quindi gli elementi per immaginare tra pochi anni l’Afghanistan come nuovo campo di battaglia nel confronto tra India e Pakistan.
Alla luce di questi rapidi mutamenti l’Europa sembra seguire ciecamente gli Stati Uniti, quasi senza essere consapevole di ciò che fa. In Afghanistan ci ritireremo quando ce lo dirà Obama e sosteniamo la destabilizzazione dei Paesi arabi del Mediterraneo come se avere sharia, fratelli musulmani e salafiti alle porte dell’Europa e dell’Italia possa avere qualcosa a che fare con i nostri interessi. La primavera araba non porterà la democrazia perché l’Islam non è democratico né libertario. In Egitto, dove il confronto tra islamisti e militari potrebbe ora degenerare in guerra civile, i brogli elettorali sono stati enormi. Sono scomparsi o quasi i movimenti laici, liberali e libertari che avevano iniziato la rivolta e, come ha ricordato Daniel Pipes, 40 milioni di elettori hanno messo nelle urne 60 milioni di schede. Il principio “un uomo un voto” nell’Islam si amplia evidentemente a “un uomo, un voto e mezzo”.
In Tunisia le libertà personali vengono minacciate dagli “islamici moderati” che insultano e aggrediscono donne non velate e impediscono a cinema e teatri di mettere in scena spettacoli ritenuti “offensivi” per l’islam. In Libia regna il caos più totale, i partiti islamici sono già una dozzina ma tutte le forze tribali e politiche sono d’accordo che la sharia sarà alla base di leggi e costituzione. Saranno pure “moderati” ma la sharia non ha nulla in comune non solo con la libertà dell’individuo e la democrazia ma neppure con la Carta dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite.

Del resto della “internazionale” dei Fratelli Musulmani fanno parte anche i terroristi di Hamas, che controllano Gaza con l’aiuto del nuovo Egitto, e personaggi come Yusuf al Qaradawi che da al Jazira (ancora il Qatar) esortò nel 2003 tutti i musulmani a uccidere cittadini americani per vendicare l’invasione dell’Iraq e ha definito Hitler una punizione divina per gli ebrei. Di questo passo potremo sdoganare presto anche i “nazisti moderati” ma pochi mesi or sono Qaradawi ha definito con precisione lo sviluppo della primavera araba dichirando che “liberali e i laici hanno avuto la loro occasione di governare, ora tocca agli islamici. Dobbiamo far vedere al mondo com'è una guida religiosa”.

Se l’Egitto esplodesse, se la Libia diventasse un’altra Somalia e se i moderati si mostrassero un po’ meno moderati i problemi sociali, politici, strategici sarebbero tutti dell’Europa e, considerata la totale assenza di solidarietà che domina la Ue, in buona parte dell’Italia. Le prossime ondate di disperati provenienti dalla sponda sud del Mediterraneo non arriveranno sulle coste del North Carolina o della Florida, ma su quelle italiane. Anche per questo i nostri interessi oggi non sono più coincidenti con quelli degli Stati Uniti e del resto Washington non perde occasione per dimostrare il suo disinteresse per il Vecchio Continente e persino per la Nato, che Obama non ha neppure informato di aver anticipato di una anno, al 2013, la fine dell’impegno bellico americano a Kabul.

Ai nostri interessi erano molto più funzionali i regimi laici (anche se corrotti e dittatoriali) di quelli islamici che si stanno configurando e che non danno maggiori garanzie di onestà e trasparenza e ancor meno di stabilità. Oggi dovremmo “difendere” Assad al fianco dei russi invece di aiutare l’asse Usa/turco/islamista a rovesciarlo per imporre la sharia a Damasco e ripristinare l’Impero Ottomano? Sarebbe già qualcosa se i leader europei almeno si ponessero la domanda e trovassero anche risposte adeguate ai nostri interessi.
http://www.labussolaquotidiana.it/ita/home.htm