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giovedì 18 maggio 2023

Assad va al summit della Lega araba e l'incontro Usa-Siria

 Piccole Note, 18 maggio 2023

Dopo 11 anni Assad torna a partecipare a un vertice annuale della Lega araba,  previsto per domani. Ad annunciarlo è stato il ministro degli Esteri siriano, giunto in Arabia Saudita per preparare l’evento. A nulla sono valse le pressioni americane per impedire la distensione tra i Paesi del Golfo – al tempo ingaggiati nel regime-change siriano architettato dall’Occidente – e Damasco.

Assad a Riad

Anche il Qatar, che ha buoni rapporti con i siriani residenti nella regione attualmente occupata dagli americani, ha ritirato il suo niet: nonostante tenga ferma la sua ostilità nei confronti di Assad, ha deciso di non frapporre ostacoli al reintegro di Damasco nell’ecumene araba.

Nel dare la notizia del clamoroso ritorno di Assad, The Cradle cita un interessante commento del Wall Street Journal: “La decisione di riammettere la Siria nella Lega araba rappresenta un rigetto degli interessi degli Stati Uniti nella regione e dimostra che i paesi [arabi] stanno forgiando politiche indipendenti dalle preoccupazioni occidentali“.

Gli incontri di Muscat

Ma se tale sviluppo era ormai nell’aria, come abbiamo scritto in note precedenti (anche se niente affatto scontato), è più che sorprendente un’altra rivelazione di The Cradle: una delegazione siriana e un’omologa delegazione americana si sono incontrate in segreto in Oman, a Muscat, “la città in cui si svolgono i negoziati segreti’ tra Washington e i Paesi dell’Asia occidentale”.

A rivelare a The Cradle la notizia è stata una fonte informata dei fatti, la quale ha dettagliato come nel corso dei colloqui gli americani abbiano chiesto a Damasco il rimpatrio di Austin Tice, ex marines e cronista freelance catturato in Siria nel 2012 dai terroristi anti-Assad (e filo-Usa). Gli americani sostengono che Tice sarebbe detenuto in una prigione siriana, ma i siriani dicono di non saperne nulla. Il querelle di Tice è storia vecchia, più volte gli americani ne hanno chiesto il rilascio, incontrando sempre la stessa risposta dai loro interlocutori, che si è ripetuta nell’occasione.

L’occupazione americana della Siria

A sua volta, la delegazione siriana ha chiesto il ritiro delle truppe Usa dal loro territorio sovrano, circa 2.000 soldati, posti a presidio dell’area Nord-Est del Paese (si può notare, en passant, l’ipocrisia con la quale Washington chieda ai russi di rispettare l’integrità territoriale ucraina…).

La fonte non ha rivelato altro, se non che non è stata fatta alcuna menzione delle milizie curde che gestiscono la regione siriana sotto la stretta vigilanza dei padroni d’oltreoceano. Ma è chiaro che gli incontri non si sono limitati a un dialogo tra sordi.  Lo dice la composizione delle due delegazioni. Infatti, la fonte ha riferito che “agli incontri hanno partecipato esponenti della Sicurezza di entrambi i paesi e rappresentanti dei rispettivi ministeri degli Esteri”.

Probabile che la distensione regionale abbia posto nuovi problemi alla presenza dell’US Army in Siria. Aggravati, negli ultimi tempi, da alcuni attacchi alle basi statunitensi in loco che, sebbene non abbiano causato vittime, hanno evidentemente infastidito gli occupanti.

Non sarà certo questo incontro a risolvere i drammatici problemi della Siria, devastata da un decennio di guerra, dal recente terremoto e affamata dalle durissime sanzioni internazionali, (rimaste in vigore anche dopo il terremoto!). Ma il fatto che gli Usa si siano decisi a parlare con l’odiato nemico indica che qualcosa in futuro potrebbe cambiare. Non è detto che agli Stati Uniti convenga proseguire l’occupazione a tempo indefinito, in particolare se decade la prospettiva del regime-change.

Concludiamo con l’ironica annotazione di The Cradle: “La rivelazione bomba degli incontri clandestini tra Stati Uniti e Siria giunge pochi giorni dopo le critiche della Casa Bianca alle nazioni arabe per aver ripristinato i legami con la Siria”… 

https://www.piccolenote.it/mondo/assad-va-al-summit-della-lega-araba-e-lincontro-usa-siria

lunedì 8 maggio 2023

La Siria è stata ufficialmente riaccolta dopo 12 anni nella Lega Araba

 The Cradle  - 7 maggio 2023

Il portavoce del ministero degli Esteri iracheno, Ahmad al-Sahhaf, ha annunciato che i ministri degli Esteri arabi riunitisi domenica a porte chiuse nella capitale egiziana Il Cairo hanno concordato il ritorno della Siria nella Lega Araba dopo quasi 12 anni di sospensione.

Fonti hanno riferito all'agenzia di stampa russa Sputnik all'inizio del 7 maggio che, dopo le consultazioni tra i ministri degli esteri, la "maggioranza" ha sostenuto il ritorno della Siria nella Lega Araba.

Secondo un anonimo diplomatico egiziano intervistato da The National ( di Abu Dhabi), il ritorno della Siria nell'organizzazione sarà “condizionato” e dovrà dipendere “dal ritorno dei profughi siriani senza ritorsioni, da un processo politico credibile che porti a elezioni e da passi per porre fine al contrabbando di stupefacenti dalla Siria nei paesi vicini".

L'agenzia di stampa libanese LBCI ha riferito che durante l'incontro è stato concordato che il Libano entrerà a far parte di un "comitato di risoluzione della crisi per la Siria", che comprende Arabia Saudita, Iraq, Giordania ed Egitto.

Il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry ha affermato durante la sessione che una soluzione politica è l'unica via percorribile. Una soluzione militare in Siria è "irrealistica", ha detto Shoukry.

Tuttavia, ha anche sottolineato l'estrema importanza di garantire "l'eliminazione del terrorismo" in Siria, che è ancora una questione importante dato il controllo di gruppi armati estremisti su alcune aree del Paese.

Venerdì, il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi ha affermato che la Siria ha ottenuto il numero necessario di voti dall'organismo arabo composto da 22 membri.

"Simbolicamente, sarà importante, ma questo è solo un umile inizio di quello che sarà un processo molto lungo, difficile e impegnativo, data la complessità della crisi", ha detto Safadi alla CNN.

La decisione arriva alcuni giorni dopo una riunione dei diplomatici regionali nella capitale giordana Amman, alla quale ha partecipato anche il ministro degli Esteri siriano Faisal Mekdad. L'incontro si è concentrato sull'importanza di risolvere le crisi umanitarie, politiche e di sicurezza nel Paese.

Ha anche aperto la strada alla decisione ufficiale di domenica di reintegrare Damasco nella Lega Araba.

A seguito dell'incontro a porte chiuse in Egitto – che dovrebbe essere seguito da una seduta pubblica – molti si aspettano che la Siria sarà presente al vertice della Lega Araba di questo mese (il 19 maggio) nella capitale saudita Riyadh.

Questo è l'ultimo passo nel recente abbraccio del mondo arabo alla Siria, che ha visto l'Arabia Saudita – un tempo uno dei principali sostenitori della guerra sponsorizzata dagli Stati Uniti contro il paese – guidare un'iniziativa regionale per porre fine alla crisi.

Tuttavia, Washington e alcuni stati arabi, in particolare il Qatar, continuano a opporsi alla normalizzazione con il governo di Damasco.

https://thecradle.co/article-view/24524/syria-officially-welcomed-back-into-arab-league?s=09

La Siria torna nella Lega araba nonostante la contrarietà degli Usa

Piccole Note, 8 maggio 2023

La Siria è tornata nella Lega Araba dopo esserne stata espulsa 11 anni fa a causa del feroce regime-change avviato dagli Stati Uniti e sostenuto da diversi Paesi arabi ed europei. La Siria ha retto all’aggressione grazie all’aiuto dell’Iran e dalla Russia, ma ne è uscita devastata e ridimensionata – un terzo è ancora sotto l’occupazione americana tramite i curdi –  nonché ridotta allo stremo dalle sanzioni, rimaste in vigore nonostante il recente sisma che ha distrutto il Paese.

Sulla tragica situazione in cui versa la Siria, un report delle Nazioni Unite riportato dalla CNN, ha rilevato come “i livelli di povertà e di insicurezza alimentare affrontati dai siriani non hanno precedenti. Il Programma alimentare mondiale stima che nel 2022 più di 12 milioni di siriani, più della metà della popolazione, si sono trovati in condizioni di insicurezza alimentare”. La causa di tutto ciò sono le sanzioni, ma ovviamente la CNN non può dire che il suo Paese e l’Europa stanno affamando un intero popolo…

La sconfitta degli Stati Uniti

Al di là dei particolari, resta la reintegrazione della Siria nell’ecumene araba, che è stata fortemente ostacolata dagli Stati Uniti (Jerusalem Post), ossessionati dal loro odio irriducibile verso Assad. Tanto che sabato scorso, prima del voto dell’assise araba sul punto, il Consigliere per la Sicurezza nazionale Usa Jake Sullivan si è precipitato a Riad per parlare con il principe Mohamed Bin Salman, architetto del ritorno nell’ovile arabo di Damasco.

Secondo Axios i due avrebbero parlato della pace in Yemen e di alcuni progetti infrastrutturali per collegare più strettamente i Paesi del Medio oriente e questi con l’India. Si vorrebbe creare un’alternativa all’integrazione del Medio oriente nella Via della Seta cinese, cooptando l’India – rivale della Cina – in un progetto alternativo a guida Usa, che vedrebbe l’adesione postuma di Israele. Un tentativo che potrebbe non andare in porto, anche perché, come rileva Foreign Affairs, in un articolo dal titolo: “L’errata scommessa Usa sull’India”, “Nuova Delhi non si schiererà con Washington contro Pechino”…

Non sfugge, però, la tempistica della visita di Sullivan, giunto a Riad il giorno prima della votazione fatidica sulla Siria. Evidentemente ha fatto un ultimo tentativo per evitare tale passo, ma non è riuscito. Una sconfitta della diplomazia Usa, come prova il fatto che i primi a rallegrarsi di quanto avvenuto sono state Russia e Cina, suoi antagonisti globali.

Il nuovo attivismo di Riad

Il passo è stato sofferto, come evidenzia il fatto che la riunione decisiva per il reintegro della Siria si è svolta a porte chiuse e che la decisione è stata presa a maggioranza (The Cradle accennava alla contrarietà del Qatar nell’articolo “Nemici fino alla fine”).

Il ritorno di Damasco nella Lega segna un altro punto a favore della diplomazia saudita, che l’ha fortemente voluto, esponendosi alle ritorsioni dei tanti nemici di Assad.  È un momento molto importante per Mohamed Bin Salman, il quale, da motore della destabilizzazione regionale (per conto di altri), ha assunto il ruolo di motore del nuovo ordine mediorientale, come denota anche la distensione con l’Iran. 

In tale prospettiva si colloca anche l’attivismo dispiegato nei confronti del conflitto sudanese, scoppiato alcuni giorni fa a causa della rivalità di due potenti signori della guerra locali e delle manovre neocon, che hanno alimentato le rivalità latenti.

Riad ha ospitato un summit tra le fazioni rivali (Guardian). Non c’è ancora un accordo, ma il solo fatto di aver portato i duellanti al tavolo dei negoziati è un risultato notevole. Vedremo.

venerdì 3 marzo 2023

Il Congresso Usa vota per ripristinare tutte le sanzioni alla Siria

 
foto di Elia Kajmini

Piccole Note, 3 marzo 2023

“La Camera degli Stati Uniti questa settimana ha votato in modo schiacciante a favore di una mozione per mantenere le sanzioni contro la Siria, nonostante il devastante terremoto che ha ucciso almeno 5.900 persone”. Così The Cradle.

Maggioranza “bulgara”

La risoluzione, presentata dal deputato repubblicano Joe Wilson e sottoscritta da altri 51 deputati, è stata approvata con un voto di 414 a 2. Contrari solo Thomas Massie e Marjorie Taylor Greene.

La risoluzione chiede all’amministrazione Biden di continuare ad rimanere fedeli al Caesar Syria Civilian Protection Act del 2019, “che ha imposto sanzioni paralizzanti alla Siria progettate per impedire al Paese di ricostruirsi dopo anni di guerra”, come scrive Dave DeCamp su Antiwar.

“La mozione – continua DeCamp – dichiarava che il governo del presidente siriano Bashar al-Assad ‘affermava in maniera menzognera’ che le sanzioni statunitensi impedivano di dare una risposta alle devastazioni del terremoto”.

E ancora, “la mozione della Camera affermava di ‘piangere’ le vittime del terremoto e descriveva l’applicazione del Caesar Act come un modo per ‘proteggere’ il popolo siriano”.

Approvando tale mozione, la Camera chiede la revoca del gesto conciliante dell’amministrazione Biden che, dopo il sisma, ha sospeso parte delle sanzioni comminate a Damasco. Detto questo, anche la sospensione attuale, anche se non sarà revocata, non ha un grande impatto sugli aiuti.

Così su Msnbc news: “La scorsa settimana, il governo degli Stati Uniti ha annunciato una moratoria di 180 giorni sulle sanzioni per favorire i soccorsi ma, anche se le sanzioni prevedevano precedenti esenzioni per l’assistenza umanitaria, molti analisti temono che la revoca di queste sanzioni non cambierà molto”.

L’inefficace sospensione, parziale e temporanea

“[…] Ad esempio, le banche e le istituzioni finanziarie private non sono disposte a inviare denaro in Siria sotto forma di rimesse, tanto necessarie, e altri aiuti finanziari per paura di ritorsioni. Poi c’è il fatto che la stragrande maggioranza del petrolio del paese è controllata dagli Stati Uniti”.

Peraltro, si può immaginare quanto sia incisiva una sospensione di alcune sanzioni per soli 180 giorni, solo se si pensa alle conseguenze dei terremoti che hanno afflitto l’Italia, dove ancora l’Aquila e Amatrice, solo per fare due esempi, sono alle prese con la ricostruzione (e il nostro Paese è più sviluppato e non ha subito una devastante guerra decennale). Tant’è.

Poco da aggiungere. Questa la politica sanguinaria ormai è diventata approccio ordinario dell’Impero verso il povero Paese mediorientale. La colpa di Assad è quella di aver resistito al tentativo di regime-change, anche se un terzo del Paese, nel quale si trovano i giacimenti di petrolio, resta occupato dagli Stati Uniti, i quali usano allo scopo i curdi siriani, a loro volta succubi e vittime dei loro disegni (tanto è vero che, quando Erdogan li ha attaccati, hanno chiesto aiuto ad Assad, segno che l’America li aveva scaricati).

Tale l’ipocrisia di un Impero che vuole apparire come difensore della libertà e della democrazia e, per inciso, accusa i russi di attentare all’integrità territoriale dell’Ucraina….



Padre Lufti: "C'è bisogno di solidarietà. Il sisma rischia di cancellare ogni speranza"

È passato quasi un mese dal terribile sisma che ha colpito, esattamente la notte del 6 febbraio scorso, la regione tra la Turchia e la Siria, e sui media non si parla più, se non raramente, di questa tragedia che ha provocato ad oggi in totale nei due Paesi 53.565 vittime e innumerevoli feriti. Ma, dopo i primi momenti, terminate le ricerche di eventuali superstiti, restano il dolore e le sofferenze quotidiane di migliaia di persone e famiglie senza casa e senza lavoro e restano la paura di nuove scosse di assestamento e i timori nei riguardi del futuro. 

In Siria, in particolare, tra la gente si vive un clima generale di sfiducia. Per esprimere solidarietà alla popolazione oggi sono giunti ad Aleppo monsignor Giuseppe Andrea Salvatore Baturi, arcivescovo di Cagliari e segretario generale della Conferenza episcopale italiana, con il cardinale Mario Zenari, nunzio in Siria. Ad accompagnarli nella visita il padre francescano Firas Lutfi, ministro per la regione francescana di Siria, Libano, Giordania che vive nella città siriana. Infatti, se una certa solidarietà c'è stata all'inizio da parte della comunità internazionale verso i siriani vittime del sisma, c'è bisogno che gli aiuti proseguano per dare la possibilità alle popolazioni di non abbandonare la loro terra e di immaginare per loro un avvenire migliore.  A Vatican News padre Firas Lutfi spiega l'importanza della visita in corso e descrive come si vive oggi sui luoghi del terremoto.


Padre Firas, ci dice qualcosa della visita in corso?

Siamo qui a visitare un po' le zone colpite dal terremoto, stiamo percorrendo appunto tutta quella zona che è stata veramente danneggiata. Ma visitiamo anche le famiglie, le persone povere che hanno sofferto sia il trauma del sisma sia la preoccupazione per il presente e per il futuro. È una visita di solidarietà, una visita di supporto. Il cardinale Zenari ha più volte visitato la Siria, è invece la prima visita della Conferenza episcopale italiana nella persona di monsignor Baturi. Era programmata prima del terremoto, ma dopo questo evento c'erano ragioni in più per venire, per esprimere la solidarietà anche di Papa Francesco e di tutti i pastori della Chiesa italiana. Quindi è una visita molto apprezzata, molto di rinforzo e di incoraggiamento alla popolazione che sta in ginocchio.

Ecco, qual è la situazione oggi nelle località terremotate. Ci sono ancora scosse? C'è paura? Dove hanno trovato rifugio le persone che hanno perso le proprie case?

Sì, ci sono tante persone che hanno perso la loro casa e che hanno trovato riparo nelle chiese e nelle moschee e nei centri creati per l'accoglienza, ma la situazione qui è drammatica perchè centinaia di famiglie sono costrette a stare tutte insieme in una condizione di grande disagio, priva di privacy, e in una grande confusione. Sono piccoli e grandi, adulti, bambini ragazzi e ragazze che vivono così, in grandi aule semplicemente.

Ma si sta pensando a qualche sistemazione un po' meno provvisoria per loro?

Sì, sì certo, adesso grazie anche a questa collaborazione che la comunità internazionale in qualche modo ha voluto offrire, c'è un progetto per la costruzione di case prefabbricate, perchè ora ci sono molte famiglie sotto le tende.

Farà certamente anche molto freddo in questo periodo, ma come viene distribuito il cibo, il vestiario, le cose più necessarie?

Gli aiuti vengono distribuiti secondo le necessità e il numero delle persone che sono nei centri di emergenza che sono stati creati, noi francescani abbiamo parecchi centri qui ad Aleppo, almeno tre, e anche l'episcopato latino sta ospitando centinaia di persone. Insomma si cerca, entro i limiti del possibile, di aiutarli a stare bene. Ma soprattutto la gente ha paura, tanti non hanno problemi con la casa ma la paura della prima scossa ha fatto veramente sentire molta molta preoccupazione. È per questo che tanti bambini non vogliono più ritornare a casa, perché la casa invece di farli stare tranquilli e sicuri, adesso per loro rappresenta una minaccia, un rischio.

Sono presenti ancora organizzazioni e volontari per sostenere le persone in difficoltà?

Fortunatamente il terremoto ha richiamato molti giovani che lavorano qui con le organizzazione locali.

Dall'estero invece non c'è più nessuno?

Qualcuno c'è forse in Turchia, in Siria meno, solo alcuni Paesi arabi hanno mandato aiuti.

Qual è il sentimento più diffuso tra la gente: disperazione, fiducia, speranza, paura?

La paura è prevalente e poi sfiducia e disperazione, purtroppo, un senso di smarrimento e di abbandono. Le persone non hanno più fiducia nemmeno di ritornare nelle loro case. Adesso sono nel convento dei francescani, dove si trovano 3000 persone e nessuno di loro vuole andare a casa perché la casa è vista come un pericolo.

E voi come piccola Chiesa locale come fate ad aiutare tanta gente? Che cosa chiedete alla comunità internazionale?

Chiediamo appunto alla comunità internazionale più attenzione, chiediamo di superare le divisioni, le visioni miopi, chiediamo di levare in modo definitivo quelle sanzioni che pesano soprattutto sui civili e sulle persone innocenti. Abbiamo bisogno di una pace permanente, che metta fine al male che per dodici anni i siriani hanno subito prima con la guerra ora anche con il terremoto, una tragedia dentro la tragedia. Quindi è necessario un impegno veramente di tutti, soprattutto della comunità internazionale.

Localmente in questo momento c'è collaborazione tra cristiani e musulmani nelle zone colpite dal sisma?

Certamente c'è collaborazione tra tutti i siriani, musulmani e cristiani. Nel nostro monastero adesso vedo con i miei occhi moltissime famiglie musulmane che abbiamo accolto perché davanti a tragedie del genere non si fa mai distinzione tra una religione e l'altra, tra una confessione e l'altra. Sono tutti figli di Dio, sono persone ferite, come quella che il buon samaritano ha cercato di curare e di soccorrere, lungo le strade dell'umanità.

Che cosa ha in cuore, padre Firas, che cosa vorrebbe ancora dirci?

Voglio dire che ringrazio sempre la Radio del Papa per l'attenzione e per la possibilità di ascoltare la voce di questi poveri che gridano, che vivono nell'abbandono, nello smarrimento. Noi cerchiamo questa solidarietà internazionale iniziata quasi un mese fa, perché possa davvero dare più speranza e più coraggio alle persone di restare nelle loro terre. Perché dopo questi eventi tragici di solito le persone tendono ad abbandonare il loro Paese, la loro terra, non avendo più nulla su cui appoggiarsi.

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2023-03/terremoto-sisma-siria-chiesa-solidarieta-padre-lutfi-visita-cei.html

martedì 3 maggio 2022

Le parole di Lavrov e del Papa scompigliano le narrazioni scontate


 Piccole Note, 3 maggio 2022

Ha destato scandalo l’intervista di Sergej Lavrov a “Zona Bianca”, sia perché rompe la censura calata sulle voci russe, sia per le parole sulle origini ebraiche di Hitler, che hanno suscitato l’ira delle comunità ebraiche.

L’asserzione di un’ascendenza ebraica di Hitler ha comportato uno sbandamento anche di Israele, finora rimasto formalmente neutrale nel conflitto, ma con pressioni enormi perché prenda posizione a fianco dell’Ucraina.

Una mossa che però sa di dover meditare, dal momento che rischia di non poter più bullizzare la vicina Siria con raid aerei che mietono ogni settimana vite umane innocenti nel nome della sicurezza del Paese (è lo stesso motivo che Mosca adduce per l’invasione del Donbass…).

Perché i loro raid possano andare a segno, i Jet di Tel Aviv hanno bisogno della neutralità russa – le cui forze sono in Siria su invito di Assad -, cosa assicurata da accordi pregressi.

Da qui, e da altro, l’ambiguità finora conservata da Israele sul conflitto (vedi anche il New York Times), nel quale però profonde “volontari” (Jerusalem post) e intelligence. Aiuti riversati in Ucraina senza un’aperta dichiarazione di ostilità nei confronti della Russia.

Una posizione che gli ha permesso anche di spendersi per mediare tra i due litiganti, attirandosi in tal modo le ire funeste degli assertori delle guerre infinite, che vedono il conflitto ucraino come un nuovo e più proficuo capitolo delle stesse.

Resta da capire se Israele riuscirà a conservare tale neutralità o se alla fine sarà costretta a cedere alle pressioni interne ed esterne schierandosi decisamente con Kiev.

Se ciò avverrà, però, non sarà certo per le parole di Lavrov – che più che accusare sembrava evocare – sulle quali c’è stato un “chiarimento” nel faccia a faccia tra il ministro degli Esteri israeliano e l’ambasciatore russo in Israele, in una conversazione della quale “le due parti hanno deciso di non fornire ulteriori dettagli” (Timesofisrael). Cenno pieno di sottintesi.

Al coro di condanna dell’intervista di Lavrov si è unito ovviamente anche Mario Draghi, che deve pur riaffermare il suo atlantismo, ma che pure  oggi, a Strasburgo, ha affermato la necessità di arrivare a un “cessate il fuoco”, aggiungendo che “l’Italia, come Paese fondatore dell’Unione Europea, come Paese che crede profondamente nella pace, è pronta a impegnarsi in prima linea per raggiungere una soluzione diplomatica“.

Insomma, anche un atlantista puro come Draghi sembra recalcitrante, come tanti nel mondo, a obbedire ciecamente alla consegna dei neocon volta a  usare del conflitto per incenerire la Russia, bypassando i rischi connessi a tale missione suicida.

Ma in questa nota val la pena sottolineare anche la ragionevolezza della posizione di papa Francesco, che in un’intervista al Corriere della sera ha espresso ancora una volta l’auspicio che questa guerra abbia fine.

Certo, un papa non può dire altro, è il suo mestiere, e certo non ha detto nulla di rivoluzionario, e però, dal momento che ultimamente si parla solo di inviare armi, derubricando il negoziato a connivenza col nemico, tali parole non suonano di prammatica.

Una guerra d’invasione, certo, quella ucraina, ma papa Francesco sa bene che la realtà è più complessa delle schematizzazioni propagandistiche, così ha voluto dire che il conflitto non nasce solo dalla follia di Putin.

Così il Corriere sintetizza le parole di Francesco: “L’abbaiare della Nato alla porta della Russia” ha indotto il capo del Cremlino a reagire male e a scatenare il conflitto. “Un’ira che non so dire se sia stata provocata — si interroga —, ma facilitata forse sì”.

Quindi, interpellato sull’invio di armi all’Ucraina, ha dichiarato: “Non so rispondere, sono troppo lontano, all’interrogativo se sia giusto rifornire gli ucraini — ragiona — .La cosa chiara è che in quella terra si stanno provando le armi”.

A provarle sono russi, secondo il pontefice, ma anche gli altri, così che si sta ripetendo quel che avvenne nella guerra civile spagnola. Un cenno, quest’ultimo, non certo casuale, dal momento che la guerra civile spagnola fu funesto prologo alla guerra mondiale.

Se abbiamo messo insieme questi avvenimenti (l’intervista a Lavrov, l’apertura inaspettata di Draghi, l’intervista papale) è perché ci sembra che siano sottesi da un filo d’oro. E che siano come un’eco di qualcosa di tacito che si sta muovendo sottotraccia.

Cinque giorni fa il ministero degli Esteri russo pubblicava un tweet con una foto che ritraeva Paolo VI con Gromiko. Questo il testo: “Nel 1966, Papa Paolo VI e il primo ministro sovietico Andrey #Gromyko si incontrarono in #Vaticano . È arduo trovare sistemi statali così diversi tra loro, eppure i loro rappresentanti sono riusciti ad avere un dialogo costruttivo: una lezione da imparare #HistoryOfDiplomacy”. non sembra estraneo agli sviluppi seguenti.

Nell’intervista al Corriere, papa Francesco indugiava su un possibile incontro con Putin, anche se esprimeva le perplessità del caso. Ovvio che tale incontro, se dovesse esserci, dovrebbe avere un qualche risvolto reale, altrimenti sarebbe inutile. E ciò che è inutile, in questa temperie confusa, sarebbe dannoso.

Ma più che auspicare un incontro con Putin, il tweet del ministero degli Esteri russo sembra una sollecitazione diretta ad altro, un invito alla Chiesa perché rinnovi i fasti della propria diplomazia, oggi che il mondo sta attraversando una crisi che richiama quella dei missili cubani, alla cui risoluzione non fu estranea, anzi, la mediazione di Giovanni XXIII.

Certo, non fu solo il Papa a risolvere la situazione, come dimostra il carteggio segreto tra  John Fitzgerald Kennedy e Nikita Kruscev rivelato dal teologo cattolico James W. Douglass nel libro JFK and the Unspeakable: Why He Died and Why It Matters e ripreso, non certo a caso, dai media russi nel 2018 .

A sbrogliare la matassa contribuì non poco la diplomazia italiana, allora guidata dalla Democrazia cristiana, che lavorò sottotraccia per un compromesso: la smobilitazione delle testate atomiche Nato dislocate in Italia e in Turchia in cambio di un’inversione di marcia dei sovietici, che avevano inviato le proprie testate atomiche a Cuba suscitando le legittime preoccupazioni americane (come per la Russia l’allargamento della Nato a Est).

mercoledì 29 dicembre 2021

Secondo attacco israeliano questo mese contro il principale porto commerciale della Siria

 

Il 28 dicembre alle 3,21 di notte, caccia F-16 israeliani hanno lanciato quattro missili da crociera sul porto di Latakia. L'attacco è stato massiccio e ha inflitto pesanti danni alle infrastrutture portuali e ingentissime perdite di container pieni di importazioni civili come: filati di cotone utilizzati nelle fabbriche di tessuti di Aleppo, pneumatici per auto, parti per auto, latte per neonati destinato alle farmacie e molti altri carichi commerciali civili.
L'incendio è infuriato per ore e fitte nuvole di fumo nero si sono alzate per tutta la giornata. Non sono stati segnalati morti civili, ma i vigili del fuoco hanno inalato fumo e gli abitanti delle case vicine sono rimasti leggermente feriti da schegge di vetro. L'ospedale privato di fronte al porto, il Nada Hospital, ha subito vetri rotti lungo la sua facciata. Ristoranti e caffetterie lungo la Corniche ovest hanno subito danni alle vetrate in una delle zone residenziali più belle di Latakia, di fronte al porto.
Il porto è utilizzato da aziende private per importare farmaci, generi alimentari e forniture per i residenti siriani che subiscono le sanzioni devastanti degli Stati Uniti e dell'Unione europea che impediscono l'importazione di materiali per la ricostruzione dopo 10 anni di conflitto armato.
I generi alimentari distrutti durante l'attacco erano importati da aziende private. Questi commercianti stanno ora affrontando la rovina finanziaria. Molti di loro hanno lasciato il paese, ma coloro che sono rimasti hanno sofferto molto delle sanzioni americane ed europee che impediscono il trasferimento di denaro dalla Siria per pagare le spedizioni. Questi mercanti avevano assicurato l'approvvigionamento vitale della popolazione siriana. L'attacco israeliano ai container per il trasporto può indurre i commercianti a rinunciare a ordinare le forniture di cui hanno bisogno i residenti, come medicine e cibo, per paura di perdere il carico durante un attacco. Potrebbe essere parte di una strategia di assedio e blocco da parte di Israele.
Nel corso degli anni, Israele ha condotto centinaia di colpi su obiettivi in Siria, alcuni dei quali erano finalizzati al principale aeroporto della capitale, Damasco.

di Steven Sahiounie, giornalista e commentatore politico


AnalisiL'attacco israeliano in Siria e i colloqui di Vienna


Due giorni fa Israele ha lanciato diversi missili contro il porto siriano di Latakia, nel più massivo attacco di questa guerra non dichiarata e a senso unico, che vede i jet di Tel Aviv bombardare continuamente il Paese confinante e Damasco provare a intercettare gli ordigni nemici, ben sapendo che non può rispondere perché ne verrebbe incenerita.

I danni ingenti causati dal raid – tra l’altro è stato colpito anche un ospedale – e gli incendi divampati hanno fatto tornare alla memoria un’altra tragedia, quella dell’esplosione avvenuta nel porto di Beirut dell’agosto del 2020, orrore che rischia di ripetersi se non si mette un freno all’escalation.

Non sono state segnalate vittime, ma è la prima volta che Israele colpisce in maniera tanto massiva un’infrastruttura siriana di così grande rilevanza.

Tel Aviv giustifica tali attacchi come preventivi, perché servirebbero a tagliare le vie di rifornimento che dall’Iran portano a Hezbollah, in Libano, ma l’imponenza dell’operazione sembra più che altro uno sfoggio muscolare, anch’esso preventivo, in vista di quanto avverrà a Vienna.

In questa città, infatti, si stanno svolgendo i cruciali colloqui sul nucleare iraniano e ci sono segnali che un accordo, seppur minimale, potrebbe andare in porto. L’Iran ha infatti annunciato che non arricchirà l’uranio oltre la soglia del 60%. È quanto chiedevano gli Stati Uniti: lo stop all’arricchimento dell’uranio in cambio di uno sgravio, seppur non totale, delle sanzioni, in attesa di tempi migliori per un’intesa più ampia.

L’attacco a Latakia sembra così un segnale: Israele ha voluto dimostrare che se anche si troverà un’intesa, la guerra contro l’Iran e i suoi delegati è destinata a durare.

Ma al di là del conflitto, che durerà tempo, per quanto riguarda il dialogo di Vienna vanno registrate le dichiarazioni venate di “ottimismo” di iraniani e russi, secondo i quali sarebbero stati fatti progressi “nella direzione giusta” (Haaretz).

Ma ancora più importante appare il cambio di registro da parte delle autorità israeliane dopo la visita del Consigliere per la Sicurezza nazionale Usa Jake Sullivan a Tel Aviv.  Di questo viaggio abbiamo accennato in una nota precedente, spiegando quanto fosse importante sia per la prossimità con il nuovo round di colloqui sia per la durata, dal momento che l’inviato di Biden si è trattenuto nel Paese per ben tre giorni.  Axios aveva riferito alcune indiscrezioni di parte israeliana, che suggerivano come Sullivan avesse di fatto accolto le remore dell’establishment di Tel Aviv, assolutamente contrario all’intesa (in realtà tale niet non è così monolitico, vedi Piccolenote).  All’indomani della visita, il primo ministro israeliano Naftali Bennet, il quale ai primi di dicembre aveva detto che le trattative di Vienna dovevano finire subito, ha affermato che Israele non è a priori ostativa a un’intesa con l’Iran, ma vuole un “accordo buono“.

Dichiarazione vaga, che consentirà di criticare qualsiasi intesa raggiunta, e però più che significativa, dal momento che è la prima volta che il premier israeliano, che invano aveva tentato di dissuadere Biden dalla sua determinazione, si è detto favorevole a essa.  Vuol dire che Sullivan a Tel Aviv ha tenuto fermo il punto, costringendo le autorità israeliane a  correggere il tiro, dal momento che non possono dissentire apertamente da Washington.

Le trattative per non far fallire il summit di Vienna si stanno dipanando in tutto il mondo:  se gli Usa hanno intrapreso un fitto dialogo con Israele, la Russia si è impegnata con la controparte, come denota anche la visita del presidente iraniano Ebrahim Raisi a Mosca di questi giorni.

Questo lavorio diplomatico si intreccia con lo sfoggio muscolare dei contendenti. Israele si è detta più volte pronta ad attaccare l’Iran, anche con armi nucleari se necessario,

E in una nota su Haaretz, Chuck Freilich, ex vice consigliere per la sicurezza nazionale israeliana, ha anche profuso ottimismo su questa eventuale operazione, che risulterebbe del tutto indolore per Israele (un irenismo che cozza con quanto reputano gli analisti della Difesa israeliana, e tanti altri, vedi ad esempio The Atlantic).

Per parte sua Teheran ha inviato un messaggio alla controparte di segno analogo, con un’esercitazione che simulava un attacco alla centrale nucleare di Dimona. A conferma che non c’è una soluzione militare a questa ardua querelle.

lunedì 22 novembre 2021

Richiesta interna al Congresso USA: via dalla Siria

 Riprendiamo dal sito Piccole Note queste interessanti annotazioni su - finalmente!- movimenti interni al Governo degli Stati Uniti per il ritiro dell'illegale presenza americana in territorio siriano e della rapina (con l'accordo dei Curdi e dell'FDS) delle risorse di petrolio e di gas di Al-Omar, Al-Tanak, Al-Jafra e Koniko; giacimenti petroliferi che rappresentano i due terzi delle riserve nella Siria. 

Con l'avallo del 'Caesar Act', le sanzioni statunitensi imposte da Washington durante l'era Trump prendono di mira aziende, istituzioni e individui (sia siriani che non siriani) che vorrebbero intraprendere affari con settori dell'economia siriana volti alla ricostruzione del Paese dopo 10 anni di guerra.  Ma, come ricorda il Vescovo di Aleppo mons Georges Abou Khazen a FIDES, “perpetuare le sanzioni contro la Siria significa condannare a morte molta gente”:  “La situazione quotidiana” riferisce all’Agenzia Fides il Vicario apostolico della metropoli siriana “è per molti versi peggiore di quella che vivevamo quando Aleppo era terreno di guerra tra l’esercito siriano e le milizie dei cosiddetti ribelli. Non ci sono medicine, negli ospedali non arrivano i macchinari indispensabili per salvare tante vite, mancano i beni di prima necessità anche dal punto di vista alimentare. Tanti riescono a malapena a trovare il pane per sopravvivere di giorno in giorno”.

   OpS

Trenta membri del Congresso a Biden: gli Usa via dalla Siria

Piccole Note, 22 novembre 2021 

“L’amministrazione Biden deve rispondere a queste domande urgenti sul perché e sotto quale autorità l’esercito americano sta combattendo in Siria, qual è la missione e se quella missione è in linea con gli interessi americani”. Così Marcus Stanley, Advocacy Director del Quincy Institute for Responsible Statecraft.

Una dichiarazione che giunge nel giorno in cui 30 membri del Congresso americano hanno scritto una missiva a Biden nella quale chiedono a che titolo l’esercito Usa conduce azioni di guerra in Siria e Iraq. “Il popolo americano – si legge nella missiva – è stanco dell’infinito coinvolgimento militare degli Stati Uniti nelle guerre d’oltremare”.

“È imperativo che il Congresso e i suoi membri, in quanto rappresentanti del popolo americano, esercitino i poteri di guerra garantiti dalla costituzione per supervisionare e autorizzare qualsiasi azione militare all’estero”.

Via dalla Siria

Finalmente, qualcosa si muove, dopo anni di stallo, che vedono l’esercito Usa occupare de facto un terzo della Siria e conservare anche in Iraq una presenza più che invasiva, di fatto una forza d’occupazione, anche qui nonostante il voto del Parlamento iracheno che ne chiedeva il ritiro.

Tale occupazione ha avuto, e ha, una legittimazione del tutto fittizia, cioè la lotta al Terrore, nonostante sia ormai storia che il Terrore si sia oltremodo alimentato grazie all’intervento americano in Iraq – come ha certificato una volta per tutte la Commissione d’inchiesta britannica Chilcot.

Di interesse annotare come anche un media conservatore come il Washington Examiner ospiti una nota nella quale chiede il ritiro dalla Siria, in un articola che spiega come la legittimazione della lotta al Terrore non ha più alcun senso, dal momento che l’Isis non controlla più alcun territorio, ma sopravviva come cellule che operano in clandestinità, contro le quali si stanno muovendo con efficacia gli attori locali (la nota cita solo russi, siriani, iracheni e milizie curde, ma i più formidabili nemici dell’Isis sono i miliziani sciiti).

Non solo il ritiro dalla Siria, Giordio Cafiero, su Responsible Statecraft, spiega come le nazioni arabe si stiamo muovendo per riallacciare i rapporti con Bashar al Assad. A tale proposito cita il viaggio del ministro degli Esteri degli Emirati Arabi a Damasco, spiegando che tale Paese si è impegnato più di altri a far uscire Damasco dallo status di paria internazionale.

“Questo è nell’interesse di tutte le nazioni della regione. L’Iran non solo accoglie con favore questo processo, ma fa anche ogni sforzo per accelerarlo affinché i paesi arabi e siriani riprendano le loro relazioni”, ha, peraltro, affermato Saeed Khatibzadeh, portavoce del ministero degli Esteri iraniano.

Una lettera e qualche articolo di giornale non riusciranno certo a far invertire la rotta, ma il fatto che almeno qualcuno in America metta a tema il ritiro dal Medio oriente è una novità, dopo i tentativi falliti in tal senso da Trump, che più volta ha provato a ritirarsi dalla Siria, dovendo poi cedere alle pressioni contrarie.

L’esercito Usa a difesa degli oppressori

Una presenza sempre più ingiustificata e sempre più inaccettabile, ma dalla quale il Pentagono non vuol recedere. Di interesse, sul tema, un articolo di Doug Barrow su Antiwar, nel quale l’ex consigliere speciale di Ronald Reagan (non certo un estremista comunista) ha criticato aspramente il recente intervento del Segretario della Difesa Usa Lloyd Austin a un forum sulla sicurezza tenutosi in Bahrain, uno dei regimi più oppressivi del Golfo (ma le cui magagne restano nascoste perché è alleato con gli Stati Uniti).

In particolare, Barrow ironizza sul passaggio dell’intervento di Loyd nel quale questi accennava alla geometrica potenza prodotta dell’alleanza tra Paesi arabi e Stati Uniti, dato che sono stati incapaci di piegare l’Iran, nonostante decenni di sanzioni terribili che ne hanno falcidiato l’economia, e stanno perdendo contro i ribelli yemeniti, nonostante lo Yemen sia uno dei Paesi più poveri del mondo.

“Altrettanto ridicolo – prosegue Barrow – è stato il consiglio di Austin ai partecipanti: ‘Ho imparato che possiamo fare molto di più quando siamo uniti rispetto a quando ci lasciamo dividere’. Così ha detto l’uomo che sovrintende a un esercito che è stato responsabile della distruzione di diversi paesi e della morte di centinaia di migliaia di civili grazie alle molteplici guerre degli ultimi due decenni. ‘Stare insieme’ non sembra descrivere adeguatamente la politica degli Stati Uniti in Afghanistan, Iraq, Libia, Siria e Yemen – debacle dopo debacle”.

“Tuttavia, gli americani continuano a lavorare con questi e altri regimi oppressori, molti dei quali affidano tutto il ‘lavoro sporco’ agli stranieri. Dopotutto, chi vorrebbe morire per proteggere i propri corrotti governanti? Eppure il personale militare statunitense è bloccato a fare proprio questo. In questo caso fungono da guardie del corpo per delle élite regali che regnano su cittadini che si rifiutano di combattere” per loro.

Cenni a effetto, che riferiamo per sottolineare il realismo e l’opportunità della missiva inviata a Biden dai membri del governo. Il presidente ha bisogno di tali sollecitazioni, dato che vuol porre termine alle guerre infinite. Non può riuscire da solo: nonostante l’apparente potere che gli è conferito, l’apparato militar-industriale e gli interessi in gioco sono fortissimi.