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sabato 11 marzo 2017

L'Industria dei Diritti Umani al servizio dell'imperialismo


di Margaret Kimberley
15 febbraio, 2017

Quando le Organizzazioni dei cosiddetti Diritti Umani sono finanziate dall’un per cento, esse sicuramente riflettono le priorità e le prevenzioni dei loro influenti sponsor. Pertanto, Amnesty International è una vitale fonte della propaganda di guerra a favore degli interventi imperialisti USA in Medio Oriente e altrove. Il loro "rapporto" di un presunto "macello umano" ad opera dal regime siriano è l'ultimo episodio di una campagna volta a giustificare l’intervento degli Stati Uniti in Medio Oriente.

L'umanità ha un disperato bisogno di individui e organizzazioni che alzino la voce per il suo diritto a vivere libera dal rischio della violenza di Stato. Invece, abbiamo un’Industria dei Diritti Umani, che parla per i potenti e racconta menzogne per giustificare le loro aggressioni. Amnesty International e Human Rights Watch sono al vertice di questa lista infame. Hanno il modello e la prassi per fornire una copertura al cambiamento di regime ordito dagli Stati Uniti, dai partner della NATO e dalle monarchie del Golfo, come l'Arabia Saudita.
Amnesty International ha recentemente pubblicato un rapporto dal titolo ‘’ Mattatoio umano: impiccagioni di massa e sterminio nella prigione di Saydnaya in Siria", in cui si sostiene che il governo siriano abbia ucciso tra le 5000 e le 13.000 persone in un periodo di cinque anni. Il rapporto si basa su fonti anonime fuori dalla Siria, per sentito dire, e sull'uso discutibile di foto satellitari, che evoca la performance di Colin Powell alle Nazioni Unite nel 2003. Si fa un ampio uso di termini iperbolici quali ‘’mattatoio" e "sterminio", ma mancano le prove sulle gravi accuse proferite.

Pochi giorni dopo, Human Rights Watch si è unito al gruppo che denuncia il governo siriano per l’impiego di gas clorino contro civili in fuga da Aleppo. Ancora una volta, le argomentazioni sono state supportate da scarse indicazioni del fatto: soltanto fango, gettato contro un muro con la speranza che un poco di esso resti attaccato. Era stato invece il Fronte al-Nusra ad aggredire i profughi di Aleppo mentre tentavano di raggiungere le linee dell'esercito siriano. Un giorno esce un rapporto su esecuzioni capitali, il giorno dopo sull’impiego di armi chimiche, le barrel bombs il giorno successivo e così via.

Queste organizzazioni fasulle non dicono mai che la catastrofe umanitaria in Siria è stata provocata dall'intervento occidentale e dai loro alleati jihadisti tagliatori di teste.
La guerra non è finita, ma il governo e i suoi alleati stanno vincendo. Saranno loro a determinare il futuro della Siria. La Russia, la Turchia e l'Iran hanno convocato i negoziati di pace tra il governo e l'opposizione, ed è per questo che i tentativi di gettare discredito andranno avanti.

A partire dal 2011, gli Stati Uniti usano un sistema collaudato per imporre l’imperialismo. Si accusa un leader straniero di essere un tiranno che terrorizza la sua nazione. Ed ecco le argomentazioni per zittire le critiche: si compra il consenso dei mass media e dei politici cinici, e infine arriva la morte attraverso i cosiddetti salvatori. Ci sono nove milioni di rifugiati siriani proprio a causa della collusione tra l'Occidente e le alleate monarchie del Golfo. Hanno causato loro la sofferenza della popolazione civile, e soltanto la determinazione dei Siriani e l'aiuto dei loro alleati hanno impedito che si ripetesse la fine della Libia.

Ora che i jihadisti sono in fuga e il loro sostenitore turco sembra forse aver cambiato bandiera, la festa è finita. Ma gli imperialisti non andranno via tranquillamente. Ecco perché Human Rights Watch e Amnesty International riappaiono al momento cruciale. 

Il nuovo presidente Donald Trump è una totale incognita. Durante la campagna elettorale, ha affermato che non avrebbe sostenuto un cambio di regime, ma la sua personalità e la sua politica sono imprevedibili. Non è mai chiaro cosa intenda dire o voglia. Il suo staff è altrettanto dilettantistico, e la direzione della politica estera americana è ancora un mistero. Un giorno vuole migliorare le relazioni con la Russia e il giorno successivo fa l’inutile richiesta di restituire la Crimea ai signori neonazisti. Ma repubblicani e democratici del partito della guerra non lasciano alcun dubbio sui loro piani. Essi non rinunciano alla lotta per l’egemonia ed hanno bisogno di tutta la credibilità possibile. Per fornire la propaganda, Amnesty International e Human Rights Watch intervengono tempestivamente.
Se fossero stati davvero seri nell’obiettivo dichiarato di dare voce ai maltrattati, avrebbero usato le loro ampie risorse per criticare gli Stati Uniti a livello nazionale e mondiale. Quando il presidente George Bush istigò l'invasione dell’Iraq nel 1991, hanno ripetuto la favola dei soldati che uccidevano i neonati nelle incubatrici. Non hanno mai spiegato né si sono scusati per le loro azioni. Hanno continuato la loro orribile collaborazione nel 2011, fornendo all'amministrazione Obama una copertura per l’attacco e la distruzione della Libia.

Nessuna organizzazione denuncerà lo stato carcerario americano, il peggiore del mondo. Essi potrebbero criticare il pattugliamento dei nuovi schiavi, che uccide tre persone ogni giorno. Potrebbero chiedere perché gli Stati Uniti hanno un implicito diritto di decidere che la Libia o la Siria o la Somalia possono essere distrutti e le loro popolazioni costrette a patire. Ma affrontare questi temi andrebbe contro la loro vera missione: creare le condizioni necessarie per consentire agli Stati Uniti di commettere aggressioni senza il timore di una opinione pubblica contraria. Amnesty International e Human Rights Watch non sono amichevoli con tutti i Popoli del mondo. Se la prendono con i deboli e con i bersagli dell’attacco imperialista. Mentono in nome di coloro che violano massicciamente i diritti umani. Nonostante abbiano giocato un ruolo di primo piano nel disastro siriano, gli Stati Uniti sono stati invitati come osservatori ai prossimi colloqui di pace. Amnesty International e Human Rights Watch intervengono per fare in modo che, se l'amministrazione Trump dovesse partecipare, non ci sia alcun cambiamento di cui doversi impensierire. L’industria dei Diritti Umani è sicuramente dalla parte dei malvagi e delle loro sporche azioni.

Margaret Kimberley 

La colonna di Margaret Kimberley, Freedom Rider, appare settimanalmente nel Black Agenda Report, dove lavora come redattore e giornalista.  Ha anche un blog: freedomrider.blogspot.com.

   Trad. Maria Antonietta Carta

mercoledì 8 marzo 2017

Un 'Inno alla gioia': grazie a Sandra e a tutte le coraggiose indomite donne siriane!

Sandra Awad, responsabile comunicazione Caritas Siria, racchiude in un cortometraggio il dramma quotidiano della guerra. 
La gioia “più grande” nell’aiutare gli altri. Occidente, aiutaci a ritrovare “la nostra dignità”. 
AsiaNews

“Dopo sei anni di guerra, siamo arrivati al punto in cui ogni giorno dobbiamo lottare per usufruire delle più elementari risorse” come l’acqua, l’energia elettrica, il riscaldamento. Da qui l’idea di ricostruire all’interno di un cortometraggio “la vita quotidiana” di un cittadino siriano, un progetto “nato tre anni fa” e che oggi ha preso forma. È quanto racconta ad AsiaNews Sandra Awad, responsabile della Comunicazione di Caritas Siria, 38 anni sposata e madre di due figli, autrice di “Inno alla gioia”. Un filmato di cinque minuti circa, prosegue l’attivista cristiana, in cui sono “concentrate le difficoltà, i problemi, le insicurezze” che la popolazione civile “sperimenta ogni giorno in Siria” e che “vi chiedo di condividere” come gesto di solidarietà. 

L’idea del film è emersa per la prima volta tre anni fa, durante una seduta con la psicoterapeuta, nel contesto di un percorso intrapreso per affrontare le difficoltà, anche psicologiche, derivanti dal conflitto. “Mi ha chiesto quali fossero gli effetti della guerra” racconta Sandra Awad, non solo sul piano concreto come lutti, distruzione di case, privazioni. “Ero riuscita a creare una sorta di muro - aggiunge - che mi separasse dalle violenze, per proteggermi dalla depressione e dalla tristezza”. 
In realtà, la psicanalista voleva conoscere “le pressioni quotidiane” cui le persone in guerra devono far fronte ogni giorno, come la mancanza di acqua, di elettricità, l’emigrazione di parenti e amici, i problemi economici: “Quando ha concluso il discorso - prosegue - ho sentito qualcosa dentro di me che si era spezzato. Forse era proprio il muro che avevo costruito. E ho iniziato a piangere…”. 
Da questo confronto è nata l’idea di raccontare in un cortometraggio queste difficoltà quotidiane, che quanti vivono “in Occidente”, in pace, “non possono comprendere a fondo”. “Leggete le statistiche sulla povertà - racconta la responsabile comunicazione Caritas - magari vi arrivano le notizie dei morti e degli spargimenti di sangue, ma non è possibile comprendere lo stress di chi vive ogni giorno sulla propria pelle il conflitto. L’impossibilità di avere ogni giorno anche piccole cose, come l’acqua, il gas, il pane, l’olio per cucinare. Si può restare in fila anche 10 ore per far benzina alla propria macchina, o viaggiare per ore per raggiungere il posto di lavoro per i checkpoint”. 
I giovani hanno “smesso di pensare al futuro” e questa situazione “sta finendo per ucciderci ogni giorno di più” afferma l’attivista cristiana. Da qui il progetto, che ha preso forma per la prima volta tre anni fa, quando ho deciso di realizzare “un cortometraggio”; tuttavia, nel 2013 l’amministrazione “ha fermato il progetto” pensando fosse “una esagerazione: ricordo le parole del mio capo, che diceva ‘Non è realistico!’”. Al tempo, aggiunge, “forse era così”, ma oggi la situazione è ben più grave: “Dopo sei anni di guerra, abbiamo raggiunto il punto di dover combattere ogni giorno per usufruire delle più elementari risorse”. Da qui, il cambio di rotta dei vertici Caritas e l’idea di sostenere il progetto. 
“Il film - spiega Sandra Awad - mostra la vita di un operatore Caritas, che si sveglia al suono di una bomba. E che inizia la giornata fra difficoltà quotidiane, senza elettricità, acqua, gas… Nonostante gli eventi siano tristi, il giovane si muove sempre fischiettando le note dell’Inno alla gioia. Forse questa sinfonia è simile al muro che avevo costruito dentro di me per proteggermi. Ed è il suo modo usato per restare calmo e ottimista” anche quando una granata sta per investirlo e ucciderlo. Egli, nonostante tutto, si rialza e prosegue. “Volevo dare anche l’idea - aggiunge la responsabile comunicazione Caritas - che la gioia più grande nella vita è proprio quella di aiutare gli altri. Ed è quello che facciamo ogni giorno alla Caritas, anche se il nostro lavoro non è affatto semplice”. 
Il dramma della guerra ha toccato da vicino anche i dipendenti di Caritas Siria, come la centralinista del distretto di Kashkoul che ha perso il marito colpito da un proiettile all’inizio del conflitto. “Oggi - sottolinea Sandra Awad - si prende cura, da sola, dei tre figli e il peso della vita si fa ogni giorno più difficile da sostenere”. Al tempo stesso, gli operatori Caritas devono “mettere da parte” i loro problemi, le sofferenze e “ascoltare le persone, le loro tragedie quotidiane, con comprensione e compassione”. Se chiedi loro dive trovano la forza, aggiunge, la maggior parte risponde “dalla gioia che vediamo negli occhi delle persone che aiutiamo. Questo, nel concreto, è il vero ‘Inno alla gioia’ di Caritas Siria”. 
“Dopo sei anni di guerra la popolazione è esausta - conclude l’attivista cristiana - e il Paese è ripiombato all’età della pietra. Voi, in Occidente, aiutateci a ritrovare la nostra gioia e la nostra dignità sostenendoci, a livello finanziario o morale. E fate pressione sui vostri governi, perché mettano fine a sanzioni che rendono i ricchi ancora più ricchi e i poveri ancor più poveri. Chiedete ai vostri leader di smettere di vendere armi e consentire l’ingresso dei jihadisti in Siria. Aiutateci a ricostruire il nostro Paese, perché possiamo far risuonare ancora il nostro ‘Inno alla gioia’”
http://www.asianews.it/notizie-it/%E2%80%9CInno-alla-gioia%E2%80%9D:-un-filmato-su-come-resistere-alla-tragedia-quotidiana-della-guerra-40114.html

lunedì 6 marzo 2017

Padre Daniel: intraprendere un cammino di verità


Lettera di padre Daniel Maes 
Qara, 3 marzo 2017

Dalla vita della Comunità
Durante la prima metà della settimana scorsa abbiamo ancora sofferto per la grande ondata di freddo con il brutto risultato che i tubi dell’ acqua si sono congelati nel nuovo edificio. Per voi notizie consuete, ma per noi ogni volta una brutta sorpresa. Un ospite dal Libano che soggiornava per due giorni con noi, prima di trasferirsi a Aleppo per portare aiuto, abbiamo dovuto farlo dormire nel refettorio vicino alla stufa a legna, per evitare che partisse congelato. La seconda metà della settimana il tempo si è fatto più clemente con mattinate soleggiate. Abbiamo avuto un altro ospite, un giovane francese che è venuto una settimana per prepararsi al battesimo. Abbiamo fatto con lui i primi passi nella fede. Per noi, che abbiamo ricevuto la fede cristiana dalla nascita era una situazione sconosciuta: un semplice uomo dell’occidente, senza nessuna resistenza contro la fede cristiana ma anche senza alcuna conoscenza, né dai suoi genitori, né dalla sua educazione, né dal suo ambiente. Lui stesso risponde in modo laconico: "c'est la France". Ma la Francia non era "la figlia maggiore della Chiesa" ? Infine, l’ultima sera prima della sua partenza l’ abbiamo festeggiato con affetto. Volevamo fare “les crèpes” con i frati su un fuoco di legna. Già la preparazione era un grande divertimento come anche la cena stessa: les crèpes erano abbastanza bruciate ma ...commestibili.
Durante la seconda parte della settimana, il tempo era molto piacevole e cosi abbiamo lavorato nelle mattinate sul nostro terreno. Il sole ci scaldava gratuitamente. Il tardo pomeriggio, la sera, la notte e la mattina è davvero freddo. Per quello abbiamo il nostra stufa a legna, ma la legna è da cercare sul nostro terreno e da segare. Nel frattempo ci stiamo preparando per la grande Quaresima.
La grande vergogna della stampa Americana e dell’Occidente
Secondo Stephen Kinzer la copertura dei giornalisti sulla guerra in Siria passerà alla storia come "uno degli episodi più vergognosi nella storia della stampa Americana, cito l’articolo “The media are misleading the public on Syria” nel giornale Boston Globe, del 18 febbraio 2017. No, questo uomo non fa parte di un movimento anti-americano e neanche è un rappresentante di una stampa alternativa, ma si tratta di un giornalista molto conosciuto del The New York Times. Stephen Kinzer insegna giornalismo e politica estera alla Northwestern University di Chicago. Egli è un esempio di un giornalista normale e buono, cioè un giornalista critico. Il modo selettivo in cui la stampa americano e occidentale scrive è molto inquietante, secondo Stephen Kinzer. "I media ingannano il pubblico sulla situazione in Siria". Egli è molto critico circa le notizie su Aleppo. "I ribelli moderati" che hanno “liberato” Aleppo sono in realtà degli assassini, che terrorizzavano la popolazione, in modo arrogante e senza scrupoli, con il risultato che la popolazione ha accolto l'esercito Siriano come i veri liberatori. La maggior parte della stampa americana (e occidentale) dà news esattamente opposte a ciò che sta realmente accadendo. Secondo essa, le persone dovrebbero sperare nella vittoria di una coalizione sincera di americani, sauditi, turchi, curdi e “dell'opposizione moderata”. Stephen Kinzer trova tutto questo assurdo. Egli comunque è mite verso il popolo americano, che non ha conoscenza. La colpa di queste bugie è la stampa. Gli articoli sono scritti negli edifici editoriali di Washington dove i giornalisti vanno a cercare l’informazione nel Pentagono, nei dipartimento degli affari esteri, nella Casa Bianca e dagli "esperti" del think-tanks. Es: di al-Nosra dicono che sono ribelli e "moderati" ma non dicono che loro appartengono ad al-Qaida. Arabia Saudita avrebbe sostenuto "combattenti per la libertà", quando in realtà è lo sponsor principale del IS. Nel frattempo si scrive solo in modo negativo sulla Russia, sull'Iran o sulla Siria. E di fatto sono esattamente queste notizie ufficiali mendaci che peggiorano la situazione in Medio Oriente. L'ignoranza del popolo americano non è superiore a quella di altre nazioni, ma è più pericolosa, perché ha conseguenze per un intervento militare. Quando un uomo con un tale autorità scrive in questo modo, possiamo supporre e sperare che il gap tra la verità e i reports dei giornalisti sulla Siria nella stampa mainstream sia diventato così grande che alla fine sarà insostenibile. Il riconoscimento della verità aiuterà la Siria nel suo cammino verso la pace.
Fuorviante sensibilità
Nel pensiero”corretto” occidentale sul livello sociale e politico emerge una grande sensibilità. Una riguarda il presidente Siriano e l'esercito siriano. Si dovrebbe soprattutto evitare ogni parola positiva nella loro direzione. Anche i giornalisti che ora a malincuore riconoscono lentamente gli orrori dei terroristi, sentono ancora il dovere di aggiungere che "il regime siriano" è una dittatura terribile. Se non aggiungono questo, tutto il loro articolo diventa incredibile, perché "tutti lo sanno" (tranne la popolazione siriana stessa!). I media sono riusciti ad dipingere il presidente siriano come il vero capro espiatorio, senza esaminare in modo critico la verità. Un capro espiatorio è qualcuno che è odiato e isolato da tutti.
Per mantenere viva questo idea politica corretta riguardante il presidente Siriano, otteniamo in momenti cruciali falsi rapporti come recentemente quello di Amnesty International sulla prigione che si trova qui vicino a noi. Diventa una delizia per un giornalista fare una caricatura di qualcuno che ammira in modo sincero il presidente siriano. Quell'uomo è poi bruciato per sempre. Qui non ci vuole nessun commento ulteriore....
Durante la visita della delegazione belga con parlamentari e giornalisti in Siria, si è svolta anche una visita al nostro monastero. Per caso era una mattina piena di sole. Il nostro giornalista VRT voleva un'intervista. E quale fu la prima domanda? Ascolta: tu sei un fan di Assad? Io ho risposto così, per esemplificare quello che volevo dire: “Se io dico apertamente che sono contrario al fatto che il nostro primo ministro (premier) del Belgio Michel sarà assassinato dai terroristi, allora voi mi chiamate un fan di Michel o un agente segreto del "regime belga"?. Io sono un cristiano e i cristiani sono sempre stati i cittadini più leali nella società, anche nell'Impero Romano, ma non sono mai stati ricompensati per quello. Al contrario erano sempre incolpati di tutto ciò che andava storto nella società, solo perché i cristiani non volevano adorare gli dei dei pagani. Il governo siriano infatti è un governo eletto in modo legittimo e il presidente è ampiamente sostenuto da tutti gli strati della popolazione. Che problema c’è, se uno riconosce e difende l'autorità legale, anche se l’autorità ha difetti e imperfezioni? La seconda domanda era sulla guerra civile siriana, in cui ho cercato di rispiegare che c’è mai stata una guerra civile interna e che non arriverà mai. Dall'esterno invece si tenta di provocare una cosiddetta guerra civile. In breve, per la televisione fiamminga (VRT) sarà probabilmente un'intervista "inutilizzabile". Non mi sembra che la abbiano mai trasmessa.
Perchè i cristiani non rispondono
L'Occidente trova la sua origine nella civiltà giudaico-cristiana e greco-romana. La Chiesa ha visto nascere tutti i paesi e probabilmente li vedrà anche scomparire. Tutte le principali università e ospedali derivano da istituzioni ecclesiastiche. Questa fede cristiana è in gran parte scomparsa. Gruppi musulmani hanno invaso i nostri paesi, si sono infiltrati in tutti gli strati e istituzioni, solitamente senza adattarsi e ora sono già pronti in tante città europee a far dominare la dittatura della sharia. Una strategia in tre fasi: migrazione, infiltrazione e installazione. E dove questo non è ancora in atto, loro stanno facendo i preparativi necessari in modo prudente. L'islam è modesto e sottomesso fino a quando si manifesta l’occasione di prendere il potere. Il problema qui non sono i musulmani ma l'islam come organizzazione globale di guerra e di conquista. Gli Stati del Golfo e grandi organizzazioni islamiche spendono miliardi per la propaganda dell'islam in tutto il mondo. Secondo loro tutta la popolazione mondiale deve essere sotto un califfato islamico. Le popolazioni che vivono già sotto l'islam, sono chiamate "il mondo della pace", gli altri invece vivono ancora nel "mondo della guerra". L'islam non si adatta, al contrario la vita di tutte le popolazioni deve essere adattata all'islam. I musulmani conoscono la pace, l’islam invece non conosce la pace. L’islam conosce solo la guerra e la sottomissione. E questa forte islamizzazione è promossa dalle nostre leggi "democratiche", dal nostro sistema di multiculturalismo, dalla nostra grande tolleranza e dalla paura gonfia di islamofobia e anti-razzismo. Anime “Illuminate” ci stimolano a scoprire in Europa radici arabo-islamiche non-esistenti e gli apostoli dell' islam ci propongono una civiltà islamica moderata, adattata all’occidente. Nel frattempo, spariscono sempre più simboli cristiani, feste ed usanze cristiane dalla vita pubblica, per far posto ad una cultura islamica forzata con i loro eventi, la loro alimentazione halal, le loro pratiche di ramadan ecc. Campanili sono abbattuti e scompaiono, mentre cresce il numero di minareti. Chiunque creda che non c’è da preoccuparsi, potrà trovare la realtà schiacciante nel libro che abbiamo accennato in passato di Philippe de Villiers, Les cloches sonneront-elles encore demain? Albin Michel, 2016. Il nostro vuoto spirituale vacuo è ora riempito in modo accelerato dalla strategia di conquista dell'islam. Se si iniziasse già ad applicare le regole più elementari di uguaglianza e di anti-razzismo, risolverebbe già grande cose; musulmani provenienti da paesi dove i cristiani non sono autorizzati a vivere la loro fede, non possono neanche farlo qui e paesi musulmani che non consentono la costruzione delle chiese non possono neanche costruire moschee qui. Questi principi purtroppo non sono nemmeno stati applicati. Sono proprio le nostre leggi "democratiche" che ci portano alla colonizzazione dell'islam nel nostro proprio paese. Il vero problema è che noi neghiamo le nostre radici e civiltà cristiane.  O dobbiamo aspettare finchè le nostre Cappelle di Maria e del Calvario saranno rimosse per legge dalla strada perché infastidiscono (noi stessi? lo riteniamo) musulmani che vogliono sedersi sul loro tappeto su piazze pubbliche? Noi cristiani dovremmo essere incoraggiati ad esplorare la profonda ricchezza della fede e dell'esperienza cristiana. I musulmani dovrebbero essere aiutati a essere liberati dagli elementi umani indegni dell'Islam.
  Il digiuno infatti è una buona occasione per iniziare un movimento contrario.

(traduzione di A. Wilking)

venerdì 3 marzo 2017

Da Aleppo in Italia per parlare dei cristiani in Siria e come costruire la pace

La diocesi di Grosseto torna ad accogliere la voce della comunità cristiana di Aleppo, con la quale si è sedimentato un rapporto di amicizia e di solidarietà in questi durissimi anni di guerra e di terrore.


Da venerdì 3 a domenica 5 marzo sarà, infatti, a Grosseto fr. Firas Lutfi, frate francescano siriano della Custodia di Terra Santa, che con i suoi confratelli ha vissuto la tragedia di Aleppo e della sua terra. In Europa per una serie di incontri e testimonianze, fr. Firas racconterà la situazione attuale della città-martire, assurta a simbolo della tragedia siriana.  In particolare, venerdì 3 marzo alle 21.15, nella sala Friuli (piazza san Francesco) a Grosseto, il religioso parteciperà all’incontro pubblico: “Aleppo e Siria: cristiani tra speranza di stabilità e ricostruzione della pace”. (vedi pagina appuntamenti)
“Invito tutti a sentire la presenza tra noi di p. Firas come un’occasione e un richiamo personale – commenta il vescovo Rodolfo – In questi anni abbiamo vissuto, attraverso il racconto suo e di p. Ibrahim Alsabagh, la testimonianza pacifica che i cristiani hanno offerto ad Aleppo in una situazione drammatica, dove la violenza sembrava non avere fine. Ora che la situazione sembra apparentemente meno difficile, in realtà si vive una fase carica di incertezze, dove occorre gettare il seme della riconciliazione e della speranza tra gente esasperata, che ha provato il dolore, ha visto in faccia la morte. Per questo è importante continuare a stare vicini all’opera della Chiesa e di tanti uomini e donne di buona volontà. Non lasciamoli soli”.
http://www.ilgiunco.net/evento/da-aleppo-a-grosseto-per-parlare-dei-cristiani-in-siria-e-come-costruire-la-pace/

2 marzo 2017: Con il supporto dei russi e di Hezbollah, l'esercito siriano ha liberato Palmyra, che ora dovrà essere di nuovo bonificata dalle mine disseminate da ISIS nella ritirata

Padre Janji racconta la Siria che soffre per «mancanza di tutto»

«I bombardamenti sono finiti, ma c’è un altro tipo di crisi, che adesso stiamo vivendo: la mancanza di tutto». Lo racconta padre Elias Janji, prete armeno cattolico di Aleppo, intervenuto il 28 febbraio, alla preghiera dei vespri dei monaci Camaldolesi nella chiesa di San Gregorio al Celio, dove ogni ultimo martedì del mese si prega per la pace in Siria.  «Continuate a pregare per noi – ha detto -. Così si può realizzare la pace. Andrò via felice, perché credo nelle vostre preghiere». Dopo la preghiera, promossa insieme ai monaci e alle monache Camaldoelsi dall’associazione “Aiutiamo la Siria!”, ha salutato chiunque gli si sia avvicinato con un sorriso. «Io sono qui dal 10 gennaio – racconta -; prima della mia partenza la situazione era migliorata ma manca l’acqua da due mesi, l’elettricità da due anni, il gasolio non esiste, neanche la benzina. Tutte queste cose non esistono». Aleppo oggi sembra libera ma Isis è a 10 chilometri di distanza. Da 50 giorni inoltre il sedicente Stato islamico si è impadronito della stazione di pompaggio di Al Khafsa e ha lasciato Aleppo senz’acqua: «Siamo più calmi, ma è terribile quando vedi una persona di 70 anni costretta a prendere l’acqua con un bidone per portarla a casa».
Padre Janji è critico verso i mezzi di informazione occidentali. «I media europei ci hanno tradito – afferma -, non dicono sempre la verità. Ad Aleppo c’è la parte Est e la parte Ovest ma si parla sempre della parte Est dove colpiscono le forze governative. Ma noi stiamo nella parte Ovest e viviamo nella paura dell’Isis. È un problema molto grande e grave, che viene dal conflitto Russia e America per controllare la Siria». Il 40% della città è distrutta, ma per il sacerdote «prima ancora di ricostruire dobbiamo pensare a come vivere». La povertà è molto grande, le persone non lavorano da 5 anni. Chi aveva soldi li ha finiti: «Grazie alla Chiesa, alla Caritas siamo riusciti a sopravvivere. È molto importante però non basta. Anche a livello psicologico, quello che manca è il lavoro, uscire di casa».
Janji era il parroco della cattedrale distrutta due anni fa; adesso presta servizio nella chiesa di Santa Croce ad Aleppo, ma il suo raggio d’azione è più ampio: «I vescovi mi hanno nominato responsabile delle comunicazioni delle Chiese cattoliche di Aleppo. C’è una canale libanese che si chiama Tele Lumiere, come Tv2000, che trasmette ogni sabato un programma che si intitola “La luce di Aleppo”. È molto importante per fare sapere che noi ci siamo». Dall’anno scorso il sacerdote conduce il talk show, registrato ad Aleppo e trasmesso dal Libano. Racconta storie quotidiane e ospita la gente che ancora vive in città, cerca di «dare speranza».
Per dare speranza, oltre alla tv, il parroco usa Mozart, Beethoven e Vivaldi. Già da diverso tempo, Janji dirige il coro “Neregatsi”: trenta cristiani di Aleppo che dopo il lavoro provano per due ore quattro volte alla settimana. «Come ha detto il grande maestro Riccardo Muti una volta, la musica ci salva. Io credo che la musica può darci la pace». A novembre il coro sarà in tournée in Francia, a Parigi, Lione, Marsiglia e Tolosa: «Faremo il requiem di Mozart con un’orchestra francese. Abbiamo voluto che l’orchestra fosse locale per creare un’unione tra il popolo francese e quello siriano». Tra le tappe che vorrebbe toccare c’è anche Roma: «Spero di poterlo fare anche qui a Roma, se ci sarà l’aiuto di qualche sponsor». Intanto padre Elias continua a darsi da fare: «La pace è possibile».

mercoledì 1 marzo 2017

La preghiera di Quaresima di Sant'Efrem il Siro

«Signore e Sovrano della mia vita, non darmi uno spirito di pigrizia, di scoraggiamento, di dominio e di vana loquacità!

Concedi invece al tuo servo uno spirito di castità, di umiltà, di pazienza e di carità.

Sì, Signore e Sovrano, dammi di vedere le mie colpe e di non giudicare mio fratello; poiché tu sei benedetto nei secoli dei secoli.
Amen.»

Maloula, convento di Santa Tecla: icona del buono e cattivo cammino
La Preghiera di un miserabile
  di Efrem il Siro  ( 306-373)
"Signore Gesù Cristo, che hai potere sulla vita e sulla morte, tu conosci ciò che è segreto e nascosto, i pensieri e i sentimenti non ti sono velati. Guarisci i miei raggiri e il male fatto nella mia vita.
Ecco, la mia vita declina di giorno in giorno, ma i miei peccati crescono.
Signore, Dio delle anime e dei corpi, tu conosci l'estrema fragilità della mia anima e del mio corpo, concedimi forza nella mia debolezza, sostienimi nella mia miseria.
Dammi un animo grato: che mi ricordi sempre dei tuoi benefici; non ricordare i miei numerosi peccati, perdona tutti i miei tradimenti. Signore, non disdegnare questa preghiera, la preghiera di questo misero.
Conservami la tua grazia fino alla fine, custodiscimi come per il passato"  

lunedì 27 febbraio 2017

Padre Ziad Hilal: i religiosi e l'immensa opera del soccorso

Il taglio dell'acqua ad Aleppo perdura . La gente beve acqua contaminata dai pozzi. I Fratelli Maristi continuano a distribuire gratis l'acqua agli abitanti più poveri, portandola alle case con i loro camioncini

Aleppo, febbraio 2017

Quasi tre mesi dopo la liberazione della città di Aleppo dal controllo dell'ISIS da parte dell'esercito siriano, la popolazione locale si trova ad affrontare condizioni di vita durissime in una città in rovina dopo quasi sei anni di combattimenti.
In un'intervista con l'organizzazione umanitaria francese L'Oeuvre d'Orient, padre Ziad Hilal che svolge il suo ministero pastorale ad Aleppo, ha detto che il costo della vita in Siria è diventato esorbitante.
"In precedenza, il dollaro valeva circa 50 sterline siriane, oggi è scambiato a più di 520 lire siriane. Dieci volte di più! La gente di Aleppo non ha più i soldi per vivere, pochissime persone hanno un lavoro".
"Hanno bisogno di cibo, di carburante, devono pagare le tasse scolastiche per i figli, per gli studenti universitari, comprare il latte per i più piccoli. Ogni famiglia deve pagare per collegarsi ai generatori di energia elettrica" riferisce P. Hilal.
"Nella regione di Aleppo vivono decine di migliaia di persone. Esse sono spesso senza riparo, o sono ospitate in vecchie fabbriche. Hanno bisogno di tutto. Altri sono vicino a Idleb (a sud-ovest di Aleppo), o sfollati al confine con la Turchia, a Damasco, o in Libano. Altri sono profughi in Europa. Ci sono anche alcuni che sono rimasti ad Aleppo spostandosi nella zona occidentale della città", racconta sempre P. Hilal.
Il sacerdote gesuita ha spiegato che dopo l'evacuazione dei ribelli dalla parte orientale della città, "la situazione è leggermente migliorata, ma una quantità di ribelli rimane ancora nei villaggi circostanti. Ci sono ancora scambi di armi da fuoco e bombardamenti tra Aleppo e la periferia."
"L'Est Aleppo è quasi interamente distrutta. C'è una presenza militare, ma la gente non può tornare lì", "nonostante ciò, la gente sta circolando per le strade, può fare la spesa, i bambini sono più tranquilli. Tuttavia, né elettricità né acqua sono stati ripristinati nella città. Dopo gli scontri, siamo stati totalmente tagliati fuori dall'approvvigionamento dell'acqua ed è stata una dura prova per tutti. Ecco perché le persone non stanno ritornando in questo momento, anche se alcuni di loro lo vorrebbero. Tanto più perché è stato un inverno molto freddo quest'anno ed abbiamo avuto anche due nevicate", sono le parole di P. Hilal.
"La Chiesa adesso deve stare a fianco dei rifugiati, degli sfollati e degli emarginati. La gente di Aleppo non viene qui da noi solo per pregare, ma anche per ottenere aiuto."
Egli ha sottolineato che questa situazione "non è un lavoro facile per i sacerdoti, per i religiosi e le religiose, tuttavia è un lavoro che ci stiamo assumendo."
Ad esempio, le sei chiese cattoliche di Aleppo lavorano insieme per lanciare un'iniziativa chiamata 'il posto del latte'.  Ogni mese si distribuisce il latte per circa 2600 bambini di Aleppo. Le chiese distribuiscono anche cesti alimentari, forniture igieniche e pagano le rette per le lezioni dei ragazzi e gli alloggi per le famiglie.
Padre Hilal ha detto che la ricostruzione di Aleppo è prematura "fintanto che non c'è pace nel Paese". Tuttavia, ha aggiunto che si stanno studiando con alcune organizzazioni la possibilità di ricostruire alcune chiese e case distrutte.
"Il Nunzio Apostolico in Siria, il cardinale Mario Zenari e mons. Dal Toso di Cor Unum, sono venuti tre settimane fa per valutare la situazione. "
"D'altra parte, qui non possiamo aspettarci l'energia elettrica per ristrutturare, per almeno un anno, perché la rete è stata completamente distrutta dai combattimenti. Ci vorranno milioni e milioni di euro per la ricostruzione ", ha detto. "Chi pagherà per questo? Bisogna investire nella città. Bisogna avere speranza ".

giovedì 23 febbraio 2017

Padre Ibrahim: nel cuore della popolazione siriana la speranza della pace non si affievolisce

Padre Ibrahim Alsabagh, parroco latino di Aleppo, commenta l’odierna fase di colloqui in Svizzera:

Radio Vaticana, 23/02/2017
R. – Sicuramente, ogni tentativo di dialogo e ogni appuntamento tra le diverse parti per noi è un grande segno di speranza. Siamo realisti, sappiamo quante sfide ci sono… abbiamo saputo che le rappresentanze di alcune parti sono composte solo di poche persone ma, dall’altra parte, rimane un segno di speranza per un futuro migliore.
D. – Padre Ibrahim, tra due settimane sarà il sesto anniversario dello scoppio prima delle proteste e poi di tutta una serie di eventi che hanno poi portato alla catastrofe della guerra. Lei che risultati vede, oggi?  R. – Sicuramente, vediamo la gente più sofferente, più appesantita, più povera. Ad esempio, ad Aleppo abbiamo grande difficoltà con l’acqua, perché l’Is ha tagliato le condutture verso la città; l’elettricità non esiste e per tutti, significa mancanza di lavoro. E tutto questo sempre con i prezzi alle stelle. E’ una situazione diciamo “post-guerra”, anche se non è finita per Aleppo, ma questo post-guerra significa sempre sofferenza e tante attese.
D. – Uno dei posti dove ancora si lotta, ad esempio, è Idlib: c’è stato un allarme dell’Unicef per i bambini, che torna a farci pensare quanto siano stati protagonisti in questi sei anni. Ecco, l’infanzia ad Aleppo: come stanno i bambini? Hanno ripreso la scuola? Sono rimasti, i bambini?  R. – Sì, ci sono i bambini sempre con i segni della sofferenza, di tanti shock psicologici, ma non solo i bambini. Vediamo anche tantissime donne con disturbi, tantissimi uomini anche mutilati; vediamo questo ogni giorno e sappiamo che se ad Aleppo è così, allora anche in ogni luogo della Siria.
D. – Prima, la Siria era il luogo del dialogo; ora a Ginevra si combatte per ricostruirlo, questo dialogo. Secondo lei, c’è spazio, oggi, con quello che è accaduto, per tornare a stare insieme?  R. – Sicuramente, per noi c’è sempre la possibilità di un dialogo, di ricucire questa bellissima società-mosaico che è stata lesa nella sua unità. Quello che cerchiamo di fare noi è di andare incontro all’altro: non importa cosa l’altro abbia fatto ieri, noi gli andiamo incontro con tutto quello che possiamo fare, nonostante le nostre ferite, i nostri limiti come Chiesa locale. Per me è molto facile ricucire o aprire un dialogo: basta uscire in strada, basta dire buongiorno a una persona, soffermarsi ad ascoltare la sofferenza, basta bussare alla porta di un capo religioso e fare una visita.
D. – Si può tradurre in politica, questo?   R. – Le cose grandi iniziano dalle cose piccole, dalle cose più semplici: da una stretta di mano, da un sorriso, da un saluto dal cuore… Abbiamo tanta speranza che questi semi facciano veramente grandi miracoli. E noi riusciamo a vederli, specialmente quando si tratta delle Chiese: noi possiamo oggi fare molto, molto di più di quello che i canali istituzionali possono fare.
D. – Lei dice quindi anche a livello di dialogo interreligioso?   R. – Certo. Come concittadini, come persone, come responsabili di un cammino possiamo fare tanto. La Chiesa qua, per esempio, ha una grande influenza, un grande potere morale che può, spesso, cambiare anche il camino di un popolo. Noi sentiamo questa forza, oggi, e cerchiamo di approfittare proprio di questa nostra autorità morale per riprendere in mano il timone e cercare di guidare il Paese verso il dialogo, verso la pace.

mercoledì 22 febbraio 2017

Dopoguerra e petrolio, chi ricostruirà la Siria


Il Sussidiario, lunedì 20/02/2017
di Patrizio Ricci

Il 16 di febbraio si è tenuto ad Astana, in Kazakistan, il secondo round di trattative dirette tra governo siriano e opposizione armata. L'incontro non è cominciato con i migliori auspici: per minare le trattative, la delegazione dei ribelli è arrivata con un giorno di ritardo. Tale atteggiamento ha generato non poca confusione e disappunto tra le parti. Tuttavia, cercando di salvare il salvabile, i funzionari russi hanno insistito per spostare l'apertura dei colloqui a mezzogiorno del giorno successivo. Così l'incontro si è tenuto senza ulteriori interruzioni. Nella conferenza stampa finale il rappresentante siriano Bashar Jaafari si è però dimostrato molto contrariato per l'atteggiamento dei rappresentanti delle milizie armate. Nello stesso tempo, ha denunciato la mancanza di serietà della Turchia perché ancora "continua a facilitare l'ingresso di decine di migliaia di mercenari stranieri provenienti da tutto il mondo" in Siria. Jaafari ha anche detto che Ankara, come garante del cessate il fuoco, non può continuare a svolgere il ruolo di "pompiere" e nello stesso tempo di "piromane".

Ciononostante, si può dire che la riunione sia stata coronata dal successo, tenendo anche conto che si tratta di una riunione preparatoria a quella successiva che si terrà tra breve a Ginevra. In questo senso, è positivo che comunque si sia riuscito a prolungare ulteriormente il cessate il fuoco ed a sottolineare la necessità di distinguere in maniera sempre più precisa i gruppi che sono disposti ad una soluzione politica da quelli che la rifiutano. Questi ultimi (che continuano ad essere nel libro paga dei sauditi e dei qatarioti), per ottimizzare le risorse disponibili, coordinarsi e penetrare più profondamente sul territorio siriano, hanno dato vita il 28 gennaio ad un nuovo raggruppamento chiamato Tharir al Sham. E' proprio questa nuova formazione che sta dando filo da torcere all'esercito siriano a Daraa, a sud della Siria.

Tuttavia, mentre i combattimenti continuano specialmente contro l'Isis, l'esigenza più urgente per la popolazione siriana non è di ordine politico ma di aiuto immediato e di ricostruzione.
Venendo incontro a questi bisogni, il centro russo per la riconciliazione nazionale continua a mediare con i gruppi ribelli promettendo un ruolo nella ricostruzione del paese: finora sono più di 900 gruppi armati che si sono riconciliati con il governo. L'intensa attività diplomatica di Mosca è riuscita ad attenuare l'atteggiamento ostile di Turchia e Giordania nei confronti della Siria: Erdogan, con l'operazione "scudo dell'Eufrate" a nord della Siria, ha reindirizzato le bande armate filo-­turche in funzione anti-­Isis e anti curda. La diminuzione delle pretese turche ha convinto Re Abdullah di Giordania a ritirare le sue milizie dalla Siria. Il sovrano hascemita sta attuando un più stretto controllo dei confini ostacolando i rifornimenti forniti da sauditi e qatarioti attraverso le frontiere giordane.

Parlavamo della necessità di ricostruzione: la Siria è completamente distrutta, ma visto che è ricca di fonti energetiche queste potranno essere utilizzate come mezzo per finanziare la ricostruzione del paese. Le risorse interessano tutti, tant'è che sono anche la chiave di lettura della dislocazione di Isis in Siria. Non so se ci avete fatto caso, l'Isis si è dislocato solamente in zone ricche di petrolio: i pozzi petroliferi di Al­Tanak, Al­Omar, AlTabka, Al­Harati, Al­Shula, Deira, Al­Time e Al­Rashid, sono situati tutti in zone conquistate dal califfato lungo il corso del fiume Eufrate.
Il basso costo del greggio e la presenza a Raqqa di raffinerie spiega anche perché lo stato islamico l'abbia scelta come capitale. Pure l'insistenza del califfato nel conquistare Deir el Zor e Palmyra non è casuale: la sola regione di Deir el Zor produceva a metà 2015 (prima dell'intervento dei russi) 34­40 milioni di barili di greggio al giorno.
La conservazione di risorse vitali gioca un ruolo di primo piano nelle strenua resistenza del governo per non cedere queste aree. Il fattore petrolio spiega anche perché l'obiettivo principale dei turchi continui ad essere la città di Al Bab (a nord di Aleppo): secondo i dati del Financial Times, Al Bab insieme ad Aleppo è stata uno dei principali mercati per la vendita illegale di prodotti petroliferi in Siria con la Turchia. Allo stesso modo, la presenza di due raffinerie ha indirizzato la scelta dei ribelli di conquistare la città di Idlib: anche in questo caso, le fonti energetiche e la vicinanza al confine turco sono due ottime ragioni. Il desiderio di accaparrasi il petrolio è anche una delle chiavi di lettura del vecchio piano "B" americano (o "Safe zones" di Trump) che prevede la divisione della Siria in zone etniche (sunniti, sciiti ecc.) ma mira soprattutto alla sottrazione delle fonti energetiche al governo centrale.

In questo contesto, l'Europa non è rimasta a guardare: ci sono segnali che la "vecchia Europa" stia valutando i benefici economici derivanti dalla partecipazione alla ricostruzione della disastrata economia del paese.
In questo senso, nelle ultime settimane sono avvenute frequenti visite a Damasco di delegazioni parlamentari europee: l'ultima è stata una nutrita delegazione francese (ed è la prima volta dall'inizio del conflitto). Anche le interviste ad Assad da parte dei media occidentali si sono moltiplicate: le ultime sono state quelle di Yahoo News e della francese Europe 1, TF1 e LCI.
E' ingenuo pensare che queste delegazioni abbiano agito senza il placet della leadership europea e dei rispettivi governi: è chiaro che i paesi europei stiano cercando di riposizionarsi per trarne vantaggio. Tuttavia, per ora non si dovranno fare grandi illusioni: nel corso di un incontro con parlamentari belgi, Assad ha detto chiaramente che dall'inizio della guerra, la maggior parte dei paesi europei hanno adottato una politica non realistica verso la Siria e ha aggiunto che questa politica "ha isolato ed eliminato qualsiasi ruolo che l'Europa ora potrebbe svolgere a causa del proprio sostegno alle organizzazioni che hanno praticato ogni forma di terrorismo contro il popolo siriano".
Ed ancor più esplicito è stato il ministro dell'Economia siriano Adib Mayala, che su Ria Novosti ha detto: "alcuni paesi stanno cercando di penetrare con imprese e fondi non governativi di loro proprietà, che vengono creati nei paesi vicini della Siria come il Libano, così come nei paesi che sono rimasti neutrali durante la crisi". Il ministro ha precisato che contro tale prospettiva, il governo siriano ha promesso "uno stretto monitoraggio di coloro che vogliono partecipare al restauro dell'economia siriana, vanificando i tentativi di intervento di coloro che di recente hanno partecipato alla distruzione dello Stato".

In sostanza, chi beneficerà dei vantaggi derivanti della ristrutturazione dell'economia siriana saranno i più stretti alleati di Damasco: Mosca, Pechino e Teheran. La cooperazione con questi tre paesi, inserita in un piano per rilanciare l'economia, si svolgerà in molti settori come l'industria petrolifera, l'agricoltura, le comunicazioni. 
Invece, per quei paesi che hanno sostenuto l'attività delle bande armate in Siria (ed ora si dicono interessati al recupero dell'economia siriana) il ministro Mayala pone come condizione preliminare che "riconoscano il proprio errore e si scusino con il popolo siriano": sarebbe la cosa da fare più semplice e giusta, ma scusarsi ed imparare dai propri errori sembra non essere nello stile dei paesi europei.

lunedì 20 febbraio 2017

Daesh pompa le acque dell’Eufrate verso i villaggi a est di Aleppo per allagarli

Mentre Aleppo viene lasciata da 51 giorni completamente priva di acqua con enorme sofferenza di 2 milioni di persone (e numerosi casi di avvelenamento per acqua contaminata estratta dai pozzi di fortuna), Daesh (=ISIS) ha pompato un'enorme quantità di acque dell’Eufrate attraverso la stazione di pompaggio di Babiri verso i villaggi situati ad est di Aleppo, con seria minaccia di inondare i villaggi e creare un disastro per la popolazione, i terreni coltivati e servizi pubblici.
Il governatore di Aleppo Hussein Diab ha dichiarato il 17 febbraio all'agenzia informativa siriana SANA che le squadre del personale e i tecnici sono partiti immediatamente verso la zona inondata e sono riusciti a risolvere alcuni problemi di strozzatura nel corpo principale dell' acquedotto aprendo altri portali di scorrimento per ripristinare l'equilibrio di scorrimento dell' acqua, in coordinazione con l’esercito nazionale della regione.
Il governatore ha chiarito che i membri di Daesh hanno attivato le pompe nella stazione di Babiri immettendo una quantità che supera la capacità degli acquedotti allo scopo di creare maggiori danni per la popolazione e inondare l’area di acqua, e in tal modo anche contrastare le operazioni dell'esercito siriano in avanzata verso il territorio.

Daesh giovedi scorso aveva bloccato di nuovo completamente la corrente dell’acqua diretta verso Aleppo dalla fonte del Khafsa a 90 km a est di Aleppo, dopo neanche 24 ore dal momento in cui aveva iniziato a scorrere.

In precedenza l’ONU aveva messo in guardia dalle conseguenze della distruzione della diga dell’Eufrate presso la provincia di Raqqa che ormai è controllata da Daesh.

A sua volta, il governo siriano ha deplorato la distruzione del ponte di Maghla da parte degli aerei della Coalizione USA.

sabato 18 febbraio 2017

Restauratori italiani riparano preziosi busti di Palmyra danneggiati da ISIS e li rendono a Damasco

Un busto calcareo maschile datato tra il 2 ° e 3 ° secolo dC danneggiato durante l'occupazione dello Stato Islamico della città siriana di Palmyra, viene mostrato nel corso di una conferenza stampa a Roma, giovedi, 16 febbraio 2017.
I busti funerari di un maschio e una femmina che erano conservati nel Museo nazionale di Palmyra, sono stati restaurati a Roma presso l'Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro (ISCR) e saranno riportati in Siria alla fine di febbraio. ( Foto AP / Domenico Stinellis)


La restauratrice Daria Montemaggiori mostra una replica di computer-rendered , generata con stampa 3D, di una parte mancante di un busto di pietra calcarea di sesso maschile. La replica è tenuta in posizione con i magneti. Le due sculture danneggiate dal Museo Nazionale di Palmyra sono stati portate e restaurate a Roma (Foto Domenico Stinellis)  

Il restauratore Antonio Iaccarino Idelson mostra una replica, generata in stampa 3D dal computer, di un pezzo mancante di busto di nobile abbigliato in una veste di stile romano.

https://phys.org/news/2017-02-italian-teams-ancient-syrian-city.html

giovedì 16 febbraio 2017

Archbishop Bernardito Auza: Security Council open debate on protection of critical infrastructure against terrorist attacks


Intervention of H.E. Archbishop Bernardito Auza
Apostolic Nuncio and Permanent Observer of the Holy See to the
United Nations
United Nations Security Council Open Debate on
Protection of Critical Infrastructure against Terrorist Attacks
 New York, 13 February 2017 

Mr. President,
The open-ended litany of terrorist attacks in cities and villages continues to remind us of the threat of terrorist attacks to civilian infrastructure and thus to civilians populations. This wave of terror, which considers innocent civilians as legitimate targets of violence either directly or indirectly through the destruction of the civil infrastructure on which they depend, must be counteracted by the actions of a unified International Community.
Recent conflicts in the area of ancient Mesopotamia have had a devastating impact on ancient ethnic, religious and cultural minorities that for millennia have inhabited the region. Parties to these conflicts have purposefully sought to destroy the cultural fabric and the historical rootedness of these communities in the region by destroying their religious and cultural heritage sites. The intentional destruction of the infrastructure critical to the survival of these communities — such as schools, hospitals, water supplies and places of worship — has become a strategy to annihilate them collectively, immiserating and eradicating them by attacking the structures that give them a modicum of communal existence.
It is the obligation of the international community, in accord with the U.N. Charter, to protect civilians and their critical infrastructure from the brutality and barbarity of terrorist groups. Part of this obligation is to heighten public awareness of this terrorist tactic and to urge States to maintain a high level of critical infrastructure protection and resilience, as well as public preparedness in case of an attack, to prevent as much as possible the disruption of critical services and the loss of human life.
More effective and lasting measures to protect critical infrastructure against terrorist attacks must therefore be based on policies that reject the unfettered pursuit of profit and narrow geopolitical interests, even at the cost of the destruction of critical civil infrastructure. In this regard, my delegation wishes to reiterate the Holy See’s appeal to weapon-producing nations severely to limit and control the manufacture and sale of weapons, ammunitions and technologies to unstable countries and regions of the world where the likelihood of their illegal use or their falling into the hands of non-State actors remains a real and present danger.
The International Community must also address the role of organized crime in the sale or barter of weapons capable of destroying critical infrastructure. States should be urged to collaborate in this area at both the international and regional levels through the sharing of information and best practices, coordinated policies and joint border controls.
The world must act to prevent terrorists from having access to financial support by terror sponsors. The borderless nature of the terrorist groups perpetrating the destruction of critical infrastructure requires the international community to control cyber technologies that violent groups use to recruit new adherents, finance their activities and coordinate terror attacks.
Mr. President,
Pope Francis has spoken on a number of occasions of our age as a time of war, namely, “a third world war that is being fought piecemeal, one in which we daily witness savage crimes, brutal massacres and senseless destruction,”[1] like the destruction of infrastructures critical to the existence of entire populations.
The International Community must come together as one to put an end to this “war fought piecemeal.” This unity is necessary if the International Community is going to achieve the shared objective of protecting critical infrastructure against terrorist attacks. This common goal will be achieved most quickly and effectively through an unselfish sharing of critical information and best practices, of resources and technologies among States, in particular with those States least capable of protecting their critical infrastructure and populations from terrorist attacks.
Thank you, Mr. President.

Il Vaticano: Di fronte alla «guerra mondiale combattuta a pezzi» e alla minaccia di attacchi a strutture sensibili, la comunità internazionale agisca unita nel contrastare il traffico illegale di armi e il sostegno finanziario al terrorismo. 

Questo l’appello della Santa Sede all’Onu di New York, pronunciato dall’arcivescovo Bernardito Auza: